Nell’immensità dell’universo, un sottile strato di vita circonda un Pianeta. Su di esso, milioni di specie prosperano formando gli ecosistemi e gli habitat che conosciamo come pianeta Terra e che forniscono una moltitudine di servizi ecosistemici dai quali dipendono l’umanità e tutte le altre forme di vita. Tuttavia, come documenta il “Living Planet Report” del WWF, la crescente domanda umana di risorse esercita pressioni terribili sulla biodiversità. Ciò minaccia la continuità della fornitura dei servizi ecosistemici, mettendo così a rischio non solo la biodiversità, ma anche la sicurezza, la salute e il benessere futuri della nostra stessa specie.
Un punto di intersezione fondamentale tra uso di risorse naturali, popolazione e ambiente è il cibo. Con l’abbattimento delle foreste tropicali, l’uso di tecniche intensive, il cambio d’uso del suolo l’agricoltura globale e intensiva si è trasformata nella principale minaccia ambientale per il Pianeta. Ad oggi, consuma oltre il 38% della superficie terrestre (e questo 38% include ovviamente i terreni migliori)e sta distruggendo habitat, consumando risorse idriche, inquinando fiumi e oceani, oltre ad emettere una quantità di gas serra molto più elevata rispetto alle emissioni di ogni altra attività umana. Per garantire la salute a lungo termine del Pianeta si deve ridurre drasticamente l’impatto negativo delle produzioni.
Il sistema alimentare mondiale si caratterizza peraltro per alcuni gravi squilibri che riguardano il funzionamento e la gestione dei sistemi agroalimentari su scala globale. Si tratta di tre gravi paradossi legati al cibo, dalla produzione alla sua distribuzione. I tre paradossi, letti congiuntamente, offrono la misura della distanza che separa la realtà attuale da una situazione che possa essere giudicata, se non ottimale, almeno accettabile.
Il primo paradosso riguarda le disuguaglianze: a dispetto degli impegni dei governi e delle agenzie internazionali, un settimo degli abitanti del Pianeta non ha ancora cibo a sufficienza, mentre un egual numero di abitanti ha problemi di sovrappeso e obesità e soffre delle malattie croniche a questi stessi legate. Il secondo paradosso riguarda l’uso non ottimale delle produzioni alimentari, in termini di destinazioni di risorse. Il 35% della produzione agricola è infatti trasformato in mangimi per animali, il che fa della carne uno dei nodi principali del problema. Nonostante la comunità scientifica ponga la zootecnia intensiva tra i maggiori responsabili del cambiamento climatico e della scarsità idrica, oltre che della deforestazione, erosione del suolo, inquinamento e perdita di biodiversità, il consumo pro capite di carne è in continuo aumento, anche in Italia dove, incuranti dei riconosciuti benefici della dieta mediterranea, mangiamo 90 kg di carne a testa ogni anno (di cui circa un quarto di carne bovina).
Il terzo paradosso riguarda lo spreco di beni alimentari. Nel 2011, la FAO ha pubblicato uno studio sulla perdita di cibo lungo le filiere alimentari mondiali e sul cibo letteralmente “buttato via” da noi abitanti dei paesi ricchi. I dati mostrano una situazione allarmante e al contempo terribile. La quantità totale di cibo prodotto globalmente su base annua è attualmente di circa 4 miliardi di tonnellate, di cui si stima dal 30 al 50%, ossia 1,2-2 miliardi di tonnellate, venga perso o sprecato ogni anno prima del consumo. Questa stima è basata sul peso. Quando il peso viene convertito in calorie, una caloria su quattro destinata alle persone non viene in ultima analisi assunta. Inoltre, per ragioni diverse, lo spreco avviene in tutto il mondo, anche in quello più povero.
A parte l’oltraggio etico e morale, oltre alle implicazioni economiche, un cibo che non nutre nessuno non solo è inutile, ma è anche dannoso. Con il cibo buttato vengono, infatti, sprecati anche la terra, l’acqua, i fertilizzanti- senza contare le emissioni di gas serra – che sono stati necessari per la sua produzione. Il cibo buttato, peraltro, non è quasi mai scaduto, pericoloso per la salute o deteriorato. Al contrario: a dettare le regole della filiera dello spreco nei paesi ricchi è piuttosto l’odierna economia del consumo che privilegia prodotti esteticamente perfetti, che vuole tutto e subito e che invoca la durata pressoché illimitata dei prodotti. Se guardiamo poi i numeri dello spreco, la vera grande “discarica” è nei frigoriferi. Oltre 75 i chili di cibo a testa che finiscono ogni anno nella spazzatura solo in Italia, con uno spreco di 500 euro l’anno.
Purtroppo, negli ultimi cinquant’anni il consumismo si è imposto quale cultura dominante in un paese dopo l’altro, diventando uno dei motori dell’incessante crescita della domanda di risorse e della produzione di rifiuti, emblema distintivo della nostra epoca. È indispensabile e quanto mai urgente dichiarare apertamente guerra al consumismo e agli sprechi che non fanno che esacerbare la grave crisi ecologica che stiamo attraversando e accrescere la nostra “impronta” sul Pianeta.
EVA ALESSI* responsabile sostenibilità WWF Italia
Fonte: LaStampa.it