In biologia l’autopoiesi è la capacità di riprodurre sé stessi che caratterizza i sistemi viventi in quanto dotati di un particolare tipo di organizzazione, i cui elementi sono collegati tra loro mediante una rete di processi di produzione, atta a ricostruire gli elementi stessi e, soprattutto, a conservare invariata l’organizzazione del sistema (dizionario Treccani). Il termine resilienza viene usato in meccanica, in ingegneria per indicare la capacità dei materiali a resistere, mentre in psicologia indica la capacità umana ad adattarsi e di affrontare le avversità della vita.
Mentre per rigenerazione si intende nel senso sociale, morale o religioso, rinascita, rinnovamento radicale, redenzione che si attua in una collettività: rigenerazione morale, civile, politica di un popolo, di una nazione, della società (dizionario Treccani). Il termine “rigenerazione urbana” appare nel lessico della pianificazione urbanistica inglese alla metà degli anni settanta. Nel 1993 fu istituita un’agenzia a livello nazionale, Urban Regeneration Agency (URA) con competenze nel tema della “rigenerazione urbana”. In ambito urbanistico è possibile individuare una periodizzazione del concetto di “rigenerazione urbana” che parte dal dopoguerra – piani di ricostruzione – fino agli anni novanta, cioè dalla ricostruzione dei centri storici ed urbani promossa dallo Stato fino alla nascita delle agenzie pubbliche-private degli anni ottanta.
Prima della “rigenerazione”, l’urbanistica conobbe un concetto simile: il “rinnovamento urbano” (urban renewal) che nacque in Inghilterra come reazione alle cattive condizioni igieniche degli abitanti nel periodo della rivoluzione industriale del XIX secolo. In Francia dopo l’epidemia di colera, nel 1849 viene emanata una legge che disciplina le caratteristiche degli alloggi e consente l’esproprio di case malsane, ed a Parigi nel 1852 avvenne una ricostruzione di parti della città guidata da Haussmann. In Italia venne approvata la legge 2359/1865 che riguardava l’espropriazione per pubblica utilità ed intervenire per risanare le città, poi la legge 2892/1885 per risanare Napoli. In quel secolo Ildelfons Cerdà nel 1854 pubblicò la teoria dell’urbanizzazione prima, e nel 1867 la teoria generale dell’urbanizzazione. Dello stesso secolo la pubblicazione di Camillo Sitte, Der Städtebau nach seinen künstlerischen Grundsätzen (1889), L’arte di costruire la città. Negli USA, nel 1958 venne approvato un programma per il rinnovamento urbano (Federal Urban Renewal programm) e favorire le trasformazioni urbanistiche per migliorare le condizioni ambientali nelle città. In Italia, ci furono i piani di ricostruzione – D.L. 145/1945 – per soddisfare il fabbisogno abitativo (dagli anni ’50 fino agli anni ’70), poi ci fu la L.457/1978 con le zone di recupero ed i piani per il recupero del patrimonio edilizio esistente, poi vennero i “programmi complessi” e la “programmazione regionale”, cioè “interventi di recupero” e “riqualificazione” urbana attraverso diversi strumenti tecnico-giuridici.
Cittadini e istituzioni hanno la grande opportunità di rigenerare le città. Si potrebbe ri-adottare il metodo ideato da Saverio Muratori per i centri (Lettura per l’edilizia di base), e la “scienza della sostenibilità” per quelle parti di città ove sono stati costruiti edifici pubblici INA e PEEP. Alcuni spunti di analisi per le città e di ispirazione possono essere forniti da Kevin Lynch, L’immagine della città e da Ivan Illich, Elogio della bicicletta.
Nel 2000 Peter Roberts e Hugh Sykes pubblicano il “Manuale della rigenerazione urbana” (Urban regeneration, a handbook). Attualmente, in Inghilterra il legislatore promuove Agenzie di Rigenerazione Urbana (URCs) per fornire una rigenerazione sostenibile e stimolare gli investimenti nelle città, mentre negli USA il Metropolitan Istitute at Virginia Tech promuove ricerche e programmi concreti sulla “rigenerazione urbana”: Vacant Property Research Network Background (VPRN). Nella ricerca emerge il tema del giusto dimensionamento delle città abbandonate, o di parti di esse che sono diventate obsolete rispetto ai cambiamenti in corso: recessione e crisi energetica.
Nel 2008 Path Murphy pubblica Plan C per chiunque sia interessato a vivere con un consumo energetico più basso, più sano ed uno stile di vita più sostenibile. Nel 2010 la Società dei Territorialisti presieduta da Alberto Magnaghi pubblica un manifesto: “a partire dalla metà degli anni ’80 molti di noi hanno sviluppato le loro ricerche e i loro progetti facendo riferimento all’approccio territorialista o dialogando con esso. Questo approccio ha posto al centro dell’attenzione disciplinare il territorio come bene comune nella sua identità storica, culturale, sociale, ambientale, produttiva e il paesaggio in quanto sua manifestazione sensibile.” Nel 2012 il Metropolitan Istitute Virginia Tech pubblica una guida per i pianificatori: Cities in Transition: a guide for practicing planners, mentre Robin Ganser e Rocky Piro pubblicano Parallel patterns of shrinking cities and urban growth. Spatial planning for sustainable development of City Regions and rural areas. Karina Pallagst, Thorsten Viechmann e Cristina Martina-Fernandez pubblicano Shrinking cities, International perspectives and policy implications in uscita per il 2014.
Nell’ottocento affari ed igiene furono le forze che suggerirono di rinnovare le città; oggi la recessione causa emigrazioni e svuota le città. Il fallimento di un’ideologia costruita sull’economia del debito ha prodotto l’aumento delle povertà con l’evidente conseguenza che le istituzioni pubbliche non riescono a gestire se stesse e le città, mentre una ristretta élite privata ha visto moltiplicare le proprie ricchezze come non era mai accaduto nella storia.
Nel mondo professionale esiste una competenza, una strategia per uscire dalla recessione, e ci sono numerosi casi studio che mostrano buoni e cattivi esempi, buoni e cattivi modelli. La sperimentazione e gli errori hanno consentito di migliorare le proposte progettuali, così come migliorare i modelli gestionali, amministrativi, economici e politici. Il patrimonio edilizio italiano che va dagli anni ’50 sino agli anni ’80, dimostra che non c’è tempo da perdere, e bisogna intervenire per prevenire danni (rischio sismico, idrogeologico) e sprechi evitabili (efficienza energetica), e ripensare l’ambiente costruito di quelle città e di quei quartieri ove la qualità di vita è ancora bassa (servizi, comfort, ambiente e mobilità sostenibile).
Dal punto di vista della resilienza urbanisti, sociologi, agronomi, biologi e fisici, possono informarci sul fatto che le città e le loro istituzioni non stanno governano luoghi e risorse in maniera responsabile ed equilibrata, poiché abitanti ed ambiente si trovano in condizioni di forte disarmonia dal punto vista ecologico, sociale ed economico. E’ necessario pensare ed organizzare le istituzioni in maniera resiliente per affrontare correttamente i momenti di crisi, ed attivare risorse utili a raggiungere l’equilibrio: ecologico, sociale, ed economico. Una progettazione resiliente, tramite l’approccio olistico, si occupa di stimolare l’organizzazione necessaria per realizzare città sostenibili e prosperose, non più dipendenti da minacce esterne o interne (crisi morale, d’identità, culturale, alimentare, energetica, ambientale ed economica). Dal punto di vista della decrescita, una progettazione resiliente è l’opposto dell’obsolescenza pianificata. Una città o una società progettata male spreca risorse e fa aumentare il PIL quando non sarebbe affatto necessario, una città resiliente è una comunità del buon senso, una città “durevole” ed equilibrata, poco energivora e riduce il PIL selettivamente poiché non prevede gli sprechi della città progettate male. Le città progettate male durante le speculazioni edilizie, quelle del boom economico degli anni ’60 e le espansioni urbanistiche degli anni recenti dal 1996 al 2007, sono poco resilienti, fanno aumentare il PIL poiché sprecano risorse e peggiorano la qualità della vita. Ripensare quelle espansioni in maniera resiliente significa prevedere una riduzione del PIL nel luogo periodo e garantire una qualità della vita alla future generazioni. Una comunità è resiliente quando l’intero patrimonio culturale, storico, artistico, architettonico non subisce gravi danni dall’azione del sisma e dal rischio idrogeologico poiché la comunità ha saputo realizzare un adeguato piano di conservazione e riuso. Rigenerare pensando alla resilienza significa che i cittadini insieme alle istituzioni diventano produttori e consumatori di energia grazie alla “generazione distribuita” che sfrutta le fonti energetiche alternative, significa che gli abitanti si spostano prevalentemente a piedi, con bici pedelec o con i mezzi pubblici, significa che una parte del cibo è auto prodotta, o proviene dall’ambito regionale grazie all’agricoltura sinergica, significa che le città hanno giacimenti di risorse regionali provenienti dalle demolizioni selettive e che tutte le materie prime seconde (i rifiuti) sono riciclate e riutilizzate; significa che l’acqua è pubblica. Una comunità resiliente è equilibrata, e pertanto si cancellano le disuguaglianze dando un’opportunità a tutti gli abitanti. Ecco un esempio pratico di processo resiliente, creativo e razionale: scuole, università, cittadinanza ed istituzioni si concentrano a sviluppare “competenze specifiche forti” negli individui circa il tema dell’eco-efficienza (scienza della sostenibilità), mentre istituzioni, imprese e associazioni sviluppano “competenze traversali” attraverso un’organizzazione e un metodo di lavoro per processi, sui progetti; il risultato sarà una facile rigenerazione territoriale. Tutte le energie mentali si concentrano sui progetti, e si attivano modalità di lavoro condivise per tendere all’obiettivo comune: prosperità attraverso la rigenerazione.
Alcuni casi studio circa interventi di “recupero edilizio e sostenibilità“: in Francia (Operation Programmée d’Amelioration de l’Habitat, fine anni settanta) con il quartiere Perseigne nel Comune di Alençon in Normandia con un intervento di recupero di un quartiere di edilizia sociale con le teorie della partecipazione, il quartiere Bethoncourt intervento di recupero con piccole demolizioni e ricostruzioni, il complesso residenziale Quai de Rohan a Lorient con un intervento di rimodellazione con aggiunta e sottrazione di volumi; in Germania (Istitut fur Erhaltung und Moderniieung von Bauwerken, primo progetto del 1991 su Berlino Est): edifici residenziali in Büchnerstrasse a Leinefelde in Thüringen; e in Danimarca (Urban Renewal Company, 1994): blocco residenziale Hedebaygade sito in Outer Vesterbro a Copenaghen. Questi casi studio rappresentano un miglioramento della qualità funzionale e spaziale con strategie di riqualificazione alla scala di quartiere, dell’edificio e dell’alloggio e l’impiego di tecnologie con sfruttamento dell’energia solare con sistemi passivi ed attivi.
Esempi concreti sono presenti in diverse città europee. Le rivoluzioni industriali hanno trasformato le nostre città in ambienti per le automobili, adesso bisogna ridisegnare i luoghi urbani partendo dall’uomo e quindi notiamo l’aumento delle aree pedonalizzate, e delle piste ciclabili. Quando i motori a combustione saranno sostituiti con i più efficienti motori elettrici avremo anche un’aria più pulita. Gli edifici hanno le forme che gli architetti preferiscono ma sembrano prevalere rapporti e forme “classiche”. Densità ragionevoli affinché si prevenga la sovrappopolazione.
Uso del suolo, acqua, rifiuti, energia, biodiversità, mobilità, sociale e morfologia urbana sono i paradigmi di una città sostenibile.
Citiamo alcuni esempi: Hammarby Sjöstad (Stoccolma): un quartiere per 25 mila abitanti che recupera un’area industriale e portuale, Hafen city (Amburgo): prevede anche la realizzazione di aree a tutela della biodiversità, Rieselfeld (Friburgo), GWL (Amsterdam): recupero di un’area urbana precedentemente occupata da un’azienda, Bo01 (Malmo); recupero di una vasta area portuale.
Ci sono state diverse esperienze e buone pratiche di recupero urbano, dal punto di vista energetico ed urbano, con l’obiettivo di migliorare la qualità tecnologica delle abitazioni e la qualità urbana degli spazi aperti. Anche in Italia, metà anni ’90 (“programmi complessi”), abbiamo avuto casi di recupero nei centri storici attraverso specifici piani e strumenti legislativi, e riqualificazione delle aree urbane degradate.
Verso la fine del 2010, Legacoop lancia una suggestione denominata “cooperative di comunità” per affrontare l’attuale recessione e tentare di soddisfare i bisogni dei cittadini. Lo scopo è mantenere vive e valorizzare comunità locali a rischio di deperimento, quando non di estinzione. Alcune per far fronte alla mancanza o al venir meno di servizi basilari per la comunità, come scuole, negozi, servizi socio-assistenziali. Altre da motivazioni ambientalistiche e di valorizzazione delle risorse del territorio. Altre ancora dalla necessità di rispondere a crisi occupazionali determinatesi nelle aree circostanti.
Come abbiamo potuto leggere il mondo professionale ha soluzioni, mentre in questa fase del dibattito politico, sembra che l’approccio italiano al tema sia alquanto immaturo ed anacronistico: “stop al consumo di suolo” (auspicio condivisibile, ma strano e tardivo), poiché il consumo indiscriminato del suolo c’è già stato, ed ha visto l’apice della battaglia negli anni ’60 con la sconfitta della proposta dell’allora Ministro Fiorentino Sullo, che mirava a risolvere il problema della speculazione edilizia legata alla rendita ed al “regime dei suoli”. Oggi sono i costruttori stessi che hanno dei dubbi sul consumo del suolo per ovvie ragioni: recessione economica e nessuno compra le nuove case, com’era prevedibile. Siamo nel 2013, parlare di stop al consumo di suolo non serve, poiché la recessione ha fatto implodere il sistema delle costruzioni, e le città italiane presentano molti problemi: alcuni omogenei come la consuetudine a deliberare piani urbanistici sovradimensionati, e molti altri problemi eterogenei (cattiva progettazione degli spazi urbani, assenza di standard e servizi, lo sprawl urbano, alta densità, bassa densità, etc.), grazie a cattive decisioni politiche del passato, e all’obsoleta cultura della crescita per la crescita, fine a se stessa. La religione della finanza, non solo ha distrutto il capitalismo, ma anche la democrazia rappresentativa favorendo una recessione legata ad obsoleti paradigmi: PIL, petrolio ed espansione monetaria (rapporto debito/PIL e spread). E’ giunto il momento di distinguere il concetto di lavoro dal concetto di utilità. Per creare lavoro utile bisogna ridurre gli sprechi, e questa idea di buon senso entra anche nel campo urbanistico ed edilizio. Si tratta di finalizzare il lavoro in obiettivi precisi ed utili.
La scelta politica di puntare sulla bellezza dell’Italia è un insieme di strategie che vanno nella direzione di migliorare la qualità della vita, e per farlo bisogna agire parallelamente in tanti ambiti finora sottovalutati o ignorati. Esistono diverse linee politiche in ambito europeo: “Patto dei Sindaci”, “rete rurale nazionale”, “smart cities“, “european green capital” che possono essere adottate, queste vanno nella direzione giusta, ma l’UE è un blocco giuridico, poco democratico, e burocratico molto lento rispetto alle esigenze di cambiamento dei Paesi periferici che abbisognano di piani nazionali urgenti, con moneta sovrana libera dal debito immediatamente disponibile, come fanno USA e Giappone.
E’ evidente che le città italiane presentano ancora diversi problemi che non sono stati risolti e possono avere soluzione solo con un cambio di paradigma culturale, attraverso il ripristino della sovranità degli Stati, mentre le attuali ricerche e strategie messe in campo negli altri paesi sembrano andare nella direzione giusta, visti i risultati nei casi studio.
Abituati a credere che le città siano il centro dell’universo abbiamo commesso l’errore di trascurare i piccoli centri e la campagna. Se ci pensiamo bene negli ultimi quarant’anni abbiamo trascurato e danneggiato un immenso patrimonio culturale ed ambientale.
La crisi industriale innescata dai processi di globalizzazione e dall’assenza di piani e di politiche monetarie adeguate ai cambiamenti in corso, la disoccupazione creata dalle imprese che preferiscono delocalizzare per massimizzare i profitti (violando palesemente la Costituzione), la crisi della manifattura e dall’artigianato suggeriscono che bisogna ripartire dai piccoli centri e da piani città per riusare e recuperare quartieri e luoghi urbani aumentando il comfort e la qualità della vita. Un’adeguata politica agricola a sostegno delle tecniche naturali e della qualità dei prodotti, ed un riuso dei luoghi urbani abbandonati con l’inserimento di servizi culturali, e la qualità degli spazi urbani, potrebbero rappresentare una strategia efficace per nuova occupazione e migliorare le condizioni di vita per circa dieci milioni di italiani che vivono nei piccoli comuni.
Fonte: Diario di Peppe Carpentieri