Le feste e le risposte che non ci sono

da | 2 Lug 2014

Il San Jachiddu è uno dei ventiquattro fortini costruiti sul finire del XIX secolo sulle due sponde dello Stretto di Messina per proteggerlo dagli attacchi non ricordo se dei francesi, degli inglesi, dei marziani… negli ultimi 6000 anni di storia europea c’è sempre stato qualcuno dai cui attacchi bisogna “proteggersi”, e dunque qualcuno da attaccare “per proteggersi”. Ma non divaghiamo. Entrati rapidamente in disuso, i fortini subirono l’abituale lento degrado; qualcuno sparì, molti andarono in rovina, due o tre furono adibiti ad altri usi. Ma uno di essi, e uno solo che io sappia, nell’ultimo quindicennio è stato protagonista di una sorte ben diversa. Fu attentamente restaurato e, da immondezzaio ed estemporaneo poligono di addestramento per apprendisti malavitosi fu trasformato in parco ecologico, quale tuttora è. Mi è già capitato di parlarne un paio di anni fa quando il parco era stato sottratto alla direzione del suo principale artefice, Mario Albano, e dei suoi collaboratori ed era, per fortuna brevemente, finito in mani maldestre e inopportune. Ci sono tornato l’1 maggio, invitato da Mario, per tenervi una presentazione di Un pianeta a tavola in occasione della Festa della primavera che ogni anno si tiene al Forte in quella data.

Entrai in quella che fu la piazza d’armi su cui, dopo la trasformazione, ha sventolato per molti anni (ma perché adesso non più?) la bandiera della pace. Mi intercettò e mi interrogò un donnone dai modi roboanti, mai vista prima, che si presentò come una socia di Legambiente. Chi sono? Cosa faccio lì? Glielo spiegai. Cosa intendo per alimentazione sostenibile? Non sarà mica vegana, vero? Non fatemene una colpa se desiderai intensamente di non averla fra il pubblico. Così intensamente che fui esaudito.

Vidi, sotto un noto tendone bianco, lunghe file di tavoli in attesa. L’incontro si svolgeva a un’ora inusuale: di mattina, subito prima del grande pranzo collettivo che era l’evento forte della giornata, nei massicci preparativi per il quale erano tutti impegnati. I preparativi della presentazione furono molto meno impegnativi e in una decina di minuti tutto fu pronto. Fu Mario a introdurmi, e lo fece molto bene, ricordando fra l’altro (e non me l’aspettavo) una metafora a me cara, quella della bicicletta smontata cui paragono spesso lo stato attuale del movimento alternativo, una bicicletta di cui abbiamo sì tutti i pezzi ma sparsi al suolo, privi delle relazioni funzionali fra essi; perché capita che ogni “pezzo” del movimento alternativo rimanga concentrato sul suo pezzetto di verità e impermeabile a tutti gli altri e ciò ne vanifica inesorabilmente l’azione. Ma è un discorso troppo grosso e importante per riassumerlo qui, come premessa a un altro discorso, dunque torniamo a Un pianeta a tavola. Feci la mia presentazione; Mario sedette fino a un certo punto fra il pubblico e mi ascoltò con attenzione, poi fu chiamato fuori e non tornò che alla fine dell’incontro. Intanto, finito il mio monologo, venne il momento del dialogo col pubblico. E fu a quel punto che accadde una cosa interessante.

Intervenne innanzi tutto una giovane donna che parlò della sua volontà di vivere in maniera diversa ma lamentò allo stesso tempo il suo essere priva di punti di riferimento. Il suo discorso si concentrò su un esempio concreto: avrebbe voluto comprare cibo biologico ma dove? In tutta la città non se ne trova. Prese poi la parola un uomo, anch’egli piuttosto giovane, seduto accanto a lei. Era un produttore biologico di agrumi e raccontò che è costretto a riversare i suoi prodotti sul mercato convenzionale perché non esiste in quella zona alcun mercato alternativo. Parlavamo un attimo fa della bicicletta smontata? Bene, eccone qui due pezzi: una persona che vuole acquistare cibo biologico e non trova i suoi produttori e, proprio accanto a lei, un’altra persona che produce cibo biologico e non trova i suoi clienti. Sono lì, l’una accanto all’altra e per di più non chiedono di meglio che di trovare un ponte che le unisca ma in mezzo hanno il vuoto.

E qui mi viene in mente il gruppo Aequos di Saronno che mi fu segnalato da Christian Grassi, uno dei collaboratori più attivi che ho avuto nella realizzazione di Un pianeta a tavola. Christian insistette perentoriamente affinché non mi accontentassi delle notizie che mi aveva dato lui ma andassi a intervistarli personalmente. Bene, mai insistenza fu più opportuna. L’esperienza di Aequos, una cooperativa che ha realizzato una filiera corta del vegetale biologico fresco, ben si situa a conclusione della seconda parte del libro perché rientra a pieno titolo nel concetto di alimentazione sostenibile: riguarda innanzi tutto il cibo vegetale (ed è questa la prima priorità), esclude la produzione non biologica (ed è la seconda priorità), ed è organizzata con quei criteri di prossimità che Christian ha esposto alcuni capitoli prima (e che costituiscono la terza, sia pur meno rilevante, priorità). Ma c’è un’altra caratteristica di Aequos che lo rende importante: la continuità, la capacità cioè di creare attorno a sé una maglia di relazioni comunitarie non occasionali, che soddisfano dunque quelle caratteristiche di coesione e valenza, cioè convivialità e funzionalità, che nella terza parte del libro vengono identificate come necessarie. È questa la via da percorrere affinché la costruzione dell’alternativa varchi la soglia del mondo reale e non si limiti a essere un ameno gioco di società. Aequos non ha fatto altro che montare due dei tanti pezzi sparsi della “bicicletta”: i produttori biologici e i consumatori “diversi”, a loro volta raggruppati in GAS. Ed ha con ciò costruito realmente, nel mondo solido dei fatti, non in quello fumoso delle chiacchiere, un pezzo di quell’altro mondo che diciamo possibile e di cui troppo spesso ci si limita a favoleggiare a vuoto.

Cosa risposi alle due persone che avevo davanti quel giorno? Non ricordo se citai esplicitamente Aequos ma certamente la mia risposta fu improntata al loro esempio. E chiamai in causa a piene mani il luogo in cui ci trovavamo, che ha tutte le potenzialità per essere a sua volta un ponte fra le persone che vogliono cambiare concretamente la loro vita ma che oggi attorno a sé hanno solo la continuità del supermercato e per il resto… feste. Ecco il nostro limite, pensai e, credo, dissi: noi non facciamo altro che organizzare feste: feste della primavera, feste vegane, feste dei GAS, sempre e solo feste, feste, feste… e poi, tutti a casa a riprendere la vita di sempre. E come continuità, come risposta alle esigenze reali della vita, “lui”, il supermercato, l’anello finale della lunga catena produttiva convenzionale. Ma così come non si costruisce alcun edificio se prima non si sono costruite le fondazioni, non si costruisce alcuna cultura alternativa se prima non si è costruita una struttura produttiva che sia capace di costituire una alternativa reale al “loro” modo di produrre.

Dirò di più: questi eventi estemporanei sono solo evasione, intrattenimento, alto sì ma in fondo non diverso da quello televisivo. Le “isole (più o meno) beate”, confinate sia nello spazio che nel tempo, sono impotenti ad agire al di fuori di se stesse e alla fine lasciano il mondo così come sta. E giungono con ciò a risultare dannose perché, essendo la loro efficacia ridotta a una estemporanea valvola di sfogo dalla desolazione della vita nel loro mondo, hanno un effetto “digestivo” che alla fine contribuisce alla stabilità (o meglio, a mettere le toppe all’instabilità) di quel mondo.

Dunque, dissi, vi invito a impegnarvi per spingere su chi gestisce il Forte affinché esso divenga un luogo di riferimento, di incontro e di costruzione concreta di questo sistema alternativo di cui tanto parliamo. Avrei voluto fortissimamente poter dire queste cose davanti a Mario che di fatto è il Forte, ma continuava a non esserci. Tornò, come ho già detto, alla fine e concluse ringraziandoci tutti e invitando i presenti a frequentare il Forte per farne un luogo di riferimento e di incontri… religiosi. Tombola. Fu una beffa. Involontaria, fatta in assoluta buona fede, ma una beffa. La negazione esatta di quanto avevo appena detto.

Sia chiaro che scrivo tutto ciò non con l’intento di muovere critiche a chi di fatto, per l’impegno estremo e costante mostrato in tutti questi anni, di certo non le merita bensì di stimolare alla riflessione chi ritengo abbia tutte le doti per maturarla. E qui il discorso ha un valore molto più esteso del caso specifico, poiché esso è assolutamente tipico (e se così non fosse non avrebbe senso parlarne).

Mario dunque aveva davanti a sé persone che avevano appena finito di porre problemi concreti, solo la risposta ai quali va nella direzione di incidere sulla negatività del presente, ma mentre li ponevano il Forte era rappresentato da una sedia vuota. E adesso il Forte dava a quelle domande una risposta, se tale è, appartenente alla sfera del trascendente, ovvero l’esatto contrario di una risposta.

Ed ecco il limite di questa, e di molte altre analoghe, iniziative: il suo, il loro, essere altre rispetto alla vita concreta, il non porsi il problema di mutarla. E fra le altre cose,  non porsi il problema della continuità, l’unica precondizione capace di incidere sul mondo reale. Questo naturalmente non vuol dire accantonare il trascendente, lì dove si sente l’esigenza di esso, poiché fra le due cose non v’è necessariamente contraddizione. Il punto è che se non si parte dalle basi produttive della vita, che sono poi quelle che plasmano il mondo, non si fa altro che costruire sul vuoto.

Come giustamente ha ricordato Giordano Mancini durante la recente conferenza su Decrescita, Occupazione, Lavoro tenuta a Roma il 16 giugno scorso, l’alternativa non si realizza in altro modo che costruendo un modello migliore di quello esistente, che renda quest’ultimo obsoleto. Tutto il resto, senza questo fondamentale presupposto, ripeto, è solo un ameno gioco di società. E lo stato del mondo è tale da non consentirci più di giocare.

 

Si concluse così la presentazione messinese di Un pianeta a tavola. Uscii nel piazzale del Forte dove nel frattempo le file di tavoli si erano riempite di un numero di persone dieci e più volte superiore a quelle che erano venute ad ascoltarmi: il grande banchetto del primo maggio era iniziato. Non indagai sul menù. Un uomo anziano, seduto a uno dei tavoli, che a quanto pare in qualche modo mi conosceva, non ricordo come mi rivolse la parola mentre passavo: «ma questa decrescita», disse «non crederà davvero che sia possibile. Pensa che i grandi potentati la permetteranno?» Gli risposi che i grandi potentati siamo noi e tornai a casa.

Dopo pranzo (un pranzo che avrebbe riempito di orrore il donnone di Legambiente) presi il guinzaglio e portai la vispa Lupetta a fare una passeggiata sulla spiaggia.

 Filippo Schillaci