Canosio, 12 luglio 2014
Caro Totò,
la tua lettera mi ha fatto venire in mente che gli adoratori fanatici della crescita non si stanno limitando a inserire i prodotti di altre attività attualmente considerate illegali tra le merci che contribuiscono a determinare il valore del pil, ma stanno anche tentando di percorrere un’altra strada per farlo uscire dal suo sonno catatonico e farlo aumentare senza che in realtà cambi nulla. In fin dei conti, come tu scrivi, gli stupefacenti, i servizi della prostituzione, le sigarette e l’alcol di contrabbando, non solo si pagano come tutte le altre merci, ma sono più utili, per chi li compra, e meno dannosi per la collettività, di altri prodotti e servizi che sono già stati inseriti nel calcolo del pil senza aver suscitato nessuna indignazione: dalle armi ai pesticidi, dai solventi clorurati ai fenoli, dal pcb all’amianto che, prima di essere messo al bando dall’organizzazione mondiale della sanità, per più di cento anni ha causato milioni di di morti per tumori alla pleura.
L’altra strada che si sta tentando di percorrere per far crescere il pil al solo scopo di poter esultare perché è cresciuto, consiste nel calcolare il valore monetario attribuibile ad alcuni servizi che non vengono comprati e venduti, ma prestati per amore o solidarietà nell’ambito di rapporti comunitari. Se fossero svolti a pagamento, si dice, il valore monetario delle retribuzioni che dovrebbero essere pagate a chi li presta, sarebbe inserito nel calcolo del pil e il pil ne riceverebbe un incremento. Di fatto non cambierebbe nulla in termini di benessere effettivo derivante dallo svolgimento di quei lavori e dalla prestazione di quei servizi, ma la mercificazione si estenderebbe e le invocazioni alla crescita sarebbero esaudite. La più diffusa di queste attività è il lavoro delle casalinghe, uno dei più utili in assoluto, che le menti geniali preposte agli istituti di statistica non inseriscono tra le attività lavorative perché non riceve in cambio una retribuzione. Così, senza che nessuno si scandalizzi, le casalinghe sono catalogate tra le non forze di lavoro. Di qui la proposta, avanzata da menti altrettanto geniali, di retribuire con un salario il loro lavoro in nome della parità tra uomini e donne.
Il tema delle pari opportunità è molto serio e, come sai, io ne sono stata una delle più accanite sostenitrici da quando eravamo ragazzi e ne discutevamo nel nostro gruppo. Per cui non escludo a priori nessuna proposta che vada in quella direzione e ho analizzato anche questa con la massima attenzione di cui sono capace. Poiché conosco i miei limiti, può darsi che dica delle stupidaggini, ma non le dico in pubblico e questo mi incoraggia. La prima domanda che mi sono posta è: chi dovrebbe pagare il lavoro delle casalinghe? Se il costo dovesse essere a carico di chi ne usufruisce direttamente, dovrebbero pagarlo i loro mariti, ma in questo caso all’incremento del pil non corrisponderebbe un aumento dei redditi familiari. Che cavolo di crescita, scusa l’espressione, sarebbe? Inoltre, mi sono domandata, i mariti che avessero un reddito inferiore o uguale a quello riconosciuto alle casalinghe come potrebbero pagare il salario alla propria moglie? Se, invece, si riconoscesse il valore sociale del ruolo delle casalinghe e la loro retribuzione fosse posta a carico dello Stato, occorrerebbe incrementare le tasse e, anche in questo caso, il potere d’acquisto delle famiglie non aumenterebbe, quindi alla crescita del lavoro mercificato non corrisponderebbe nemmeno un incremento dei consumi. Per superare queste difficoltà si potrebbe proporre di riconoscere alle casalinghe un reddito monetario poco più che simbolico, a carico dello Stato. A parte il fatto che in questo caso, delle pari opportunità rimarrebbe soltanto l’apparenza, perché si dovrebbe limitare la retribuzione del lavoro delle casalinghe allo svolgimento dei lavori domestici? Scusami per quello che sto per dire, ma per quale motivo non si dovrebbero inserire nel calcolo del pil anche i servizi sessuali prestati nell’ambito del vincolo matrimoniale? Pensa che incremento ne riceverebbe la crescita! Alle menti geniali degli istituti di statistica spetterebbe il compito di trovare il modo per contabilizzare il loro ammontare annuo in base alle fasce d’età.
Chiusa questa parentesi, che ho osato aprire soltanto nell’ambito di una lettera privata (tu pensa se queste righe le leggesse la mia povera mamma!), provo a riprendere il filo di un discorso serio, per quanto ne sono capace. Io credo che invece di estendere la mercificazione ad ambiti sempre più estesi della vita individuale e sociale, sarebbe meglio fare il contrario: estendere l’area delle attività umane sottratte alla mercificazione e ricondotte nell’ambito dei rapporti fondati sul dono e la reciprocità. Non penso, e nessuna persona normodotata può pensare, che, almeno in questa epoca storica e in questa società, si possa fare a meno del denaro. Alcuni oggetti e alcuni servizi che richiedono tecnologie complesse ed elevati livelli di professionalità si possono solo comprare, e tutti gli esseri umani, uomini e donne, devono poter svolgere attività lavorative remunerate per ricevere in cambio il reddito monetario necessario ad acquistarli. Ma molti beni possono essere autoprodotti per autoconsumo ed essere scambiati reciprocamente senza l’intermediazione del denaro, molti servizi alla persona possono essere forniti per amore e non per mestiere. Siccome in massima parte questi lavori vengono svolti da donne, le pari opportunità si potrebbero ottenere non solo favorendo l’accesso delle donne alla produzione di merci in cambio di una retribuzione, ma anche estendendo agli uomini il compito di svolgere le attività di autoproduzione di beni e di cura.
Mi domanderai come si possa fare. Basterebbe ridurre decisamente l’orario di lavoro, cioè il tempo della vita speso nella produzione di merci in cambio di un reddito, riducendo anche le retribuzioni. In questo modo non solo si amplierebbe il numero degli occupati e si aprirebbero nuovi spazi all’assunzione di donne, ma la diminuzione del potere d’acquisto di merci indurrebbe a dedicare almeno una parte del tempo liberato dalla produzione di merci all’autoproduzione di beni e alla cura delle persone a cui si è legati da vincoli di amore e di parentela, specialmente nei casi, o nelle fasce d’età in cui non sono in grado di essere autosufficienti. Pensi che una neonata o un neonato siano più felici quando sono il papà e la mamma ad accudirli e a giocare con loro, o quando vengono affidati a una persona estranea che, tra l’altro, non deve occuparsi solo di loro, ma deve dividere il suo tempo con altri neonati? Pensi che un papà e una mamma siano più felici se invece di dedicare direttamente il loro tempo ai loro figli neonati lo passano a fare un lavoro, nella maggior parte dei casi ripetitivo e noioso, in cambio di un reddito monetario con cui pagare il reddito a estranei che si occupano dei loro figli per mestiere? Pensi che un uomo possa essere identificato principalmente e quasi esclusivamente dal mestiere che fa e dai soldi che guadagna, dal suo ruolo di produttore e consumatore di merci, che attiene semplicemente alla sfera della sopravvivenza? Il senso della sua vita non consiste piuttosto nel modo in cui svolge i ruoli di padre, di marito, di figlio? E, a partire dal cerchio delle sue relazioni più intime, dal modo in cui si colloca all’interno della rete dei rapporti umani in cui si dipana la sua vita? Non pensi che la disgregazione delle reti di solidarietà e condivisione, soprattutto nei grandi agglomerati urbani, sia stata causata soprattutto, come dicono gli psicologi, dalla perdita della figura del padre, cioè dal fatto che gli uomini sono stati talmente assorbiti dal ruolo di produttori e consumatori di merci da aver persino cancellato dal loro orizzonte mentale le loro responsabilità educative nei confronti dei figli? In questo contesto deprimente, la parità tra uomini e donne si può realizzare solo riducendo tutte le donne alla stessa condizione a cui sono stati ridotti gli uomini (con molte è già riuscito, ma non nella misura necessaria al bisogno di continuare a far crescere il pil), convincendole che sia un progresso dedicare il meglio delle proprie energie e la maggior parte del tempo di vita alla produzione e al consumo di merci, riservando agli scampoli residuali del tempo libero la gioia derivante dalle relazioni di amore e solidarietà che sono per loro natura gratuite? La parità tra uomini e donne non si può ottenere capovolgendo questa prospettiva e riportando gli uomini a quella pienezza di vita che si può raggiungere solo rompendo la gabbia che li rinchiude nella dimensione della produzione e del consumo di merci per reinserire in misura significativa la dimensione relazionale e la gratuità nelle loro vite?
Con questi interrogativi ti lascio, augurando a te, a Filomena e al vostro Gennarino tutto il bene possibile.
tua Delfina