Napoli, 19 luglio 2014
Cara Delfina,
leggendo la tua ultima lettera mi è venuto da parafrasare il famoso passo del Vangelo di Matteo 19, 24, in cui Gesù dice: «È più facile che un cammello passi per la cruna di un ago che un ricco entri nel regno di Dio». Oggi è più facile che un cammello passi per la cruna di un ago che si consideri desiderabile una riduzione dell’orario di lavoro salariato con riduzione della retribuzione, anche se ciò consente di dedicare il tempo liberato all’autoproduzione di beni e a forme di scambio non mercantili basate sulla solidarietà e sul dono reciproco delle proprie competenze professionali. Sono tutti così convinti che la ricchezza si misuri col denaro e che tutto ciò di cui si ha bisogno si possa solo comprare, che chi osasse formulare una proposta del genere verrebbe considerato fuori di testa. Un provocatore o un mattacchione che non sa come va il mondo. So che tu mi diresti: aspetta che la crisi duri ancora un po’ e vedrai quanto rapidamente cambierà il modo di sentire comune su questo tema. Ma, anche se sarà così, come è successo in Grecia, dove molte persone sono tornate dalle città alle campagne ad autoprodurre il cibo che non potevano più comprare, la riscoperta obbligata dei rapporti non mercantili e dell’autoproduzione sarebbe considerata un ripiego e una triste necessità se non fosse sostenuta da una vera e propria rivoluzione culturale, da un cambiamento della scala dei valori che capovolga il rapporto tra la produzione di merci e gli esseri umani. Oggi la crescita della produzione di merci è il fine del lavoro e gli esseri umani sono il mezzo per raggiungerlo. Occorre che nell’immaginario collettivo la produzione di merci torni a essere il mezzo con cui gli esseri umani attraverso il lavoro migliorano la qualità della loro vita rendendo più belli i luoghi del mondo in cui vivono e ricavandone con misura ciò di cui hanno bisogno per vivere. Che mi sembra una cosa più sensata.
Tuttavia non dispero che ciò possa accadere e in realtà comincia a manifestarsi qualche crepa nella granitica certezza che lo scopo dell’economia sia la crescita della produzione di merci. Lo scorso 6 luglio è apparsa sui giornali la notizia che nel primo trimestre di quest’anno, dopo 5 anni di ripresa, il pil negli Stati Uniti è diminuito del 2,9 per cento. «Catastrofe e rovina», sarebbe stato normale aspettarsi di leggere sui giornali e di ascoltare nei preoccupati commenti di economisti e politici. E invece no. Analizzando le cause di questa frenata, è emerso che la riforma della sanità promossa dal presidente americano ha fatto abbassare le tariffe delle assicurazioni sulla salute, per cui i cittadini degli Stati Uniti hanno speso di meno per un sistema che li cura meglio: la qualità della loro vita è migliorata in conseguenza di una decrescita selettiva del pil. Analogamente, se si ridimensionasse la competitività e tornasse ad essere un valore la collaborazione, diminuirebbe il tasso di litigiosità, ci sarebbero meno cause e le spese legali si ridurrebbero: anche in questo caso il pil diminuirebbe e le persone starebbero meglio. Ti pare un fatto strano, o perfettamente logico? Eppure, se si leggono i commenti giornalistici, la parola utilizzata per descrivere questa decrescita del pil degli Stati Uniti, causata da un miglioramento della qualità della vita, è «paradosso». Non ci possono credere. Ho cercato sul vocabolario la definizione della parola paradosso: indica un’idea contraria all’opinione comune, e apparentemente illogica, la cui validità è invece dimostrabile. Siccome lo capirebbe anche un bambino che se diminuisce la produzione e il consumo di un prodotto nocivo o si riduce la richiesta di un servizio perché diminuisce il disagio a cui pone rimedio, si sta meglio, allora è veramente illogica l’opinione comune che identifica la crescita del pil col benessere. E quando un fatto, come questa decrescita selettiva del pil americano, lo svela, la reazione è di stupore: come è possibile? Chi l’avrebbe mai detto?
Ma c’è anche chi fa lo scafato. «Eh, eh, è talmente chiaro. Solo gli sciocchi possono stupirsi». Un importante giornalista italiano inviato negli Stati Uniti dal suo importante giornale ha scritto che l’unica vittima di questa vicenda è: «la credibilità stessa del Prodotto interno lordo come indicatore sullo stato di salute dell’economia. Un tempo a contestare il Pil erano soprattutto economisti di sinistra, come i premi Nobel Amartya Sen e Joseph Stiglitz, ambedue autori di statistiche alternative. Oppure, ancora più radicali, c’erano le critiche dei teorici della decrescita come Serge Latouche, per i quali l’aumento del Pil è sinonimo di sviluppo insostenibile, distruzione di risorse naturali. La novità: adesso agli attacchi contro il Pil si uniscono l’establishment, i mercati, gli organi del neoliberismo». Mi pare di capire che la deduzione sottintesa sia questa: se la credibilità del pil non viene più messa in discussione solo dalla sinistra, ma anche dalla destra, che senso ha impostare la politica economica su questo valore, come continuano a fare i liberali difendendo a spada tratta le trincee del rapporto deficit/pil al 3 per cento e della riduzione del rapporto debito/pil al 60 per cento? Questi vincoli frenano l’economia e impediscono che la crescita riceva slancio da incrementi della spesa pubblica. Gli economisti di sinistra lo dicono da sempre, ma sino ad ora sono rimasti inascoltati. Dopo una perdita di credibilità del pil così clamorosa e inaspettata, signora mia, lo stanno capendo anche gli economisti di destra. Cara Delfina, a me sembra che la mancanza di logica sia dura da scalfire. L’importante è cogliere ogni occasione per ribadire la necessità della crescita del pil, anche usando strumentalmente la critica alla credibilità del pil come indicatore di benessere.
I due premi Nobel, economisti di sinistra, citati nell’articolo del giornalista scafato che non si lascia turbare dal paradosso del miglioramento della qualità della vita da cui deriva una diminuzione del pil, sono stati incaricati nel 2008 dall’allora presidente di destra della Repubblica francese, Nicolas Sarkosy, di coordinare un gruppo di lavoro composto da economisti provenienti da vari paesi, che aveva il compito di elaborare un indicatore del benessere alternativo al pil. Così almeno è stato presentato all’opinione pubblica, anche se in realtà si proponeva solo di integrare le sue carenze più evidenti aggiungendo una serie di fattori di carattere qualitativo alla sua connotazione che è esclusivamente quantitativa. Nel capitolo del rapporto finale dedicato alla salute, questi studiosi fanno notare con stupore che: «… sebbene la Francia abbia un pil pro-capite più basso rispetto agli Stati Uniti, l’aspettativa di vita alla nascita dei francesi è maggiore, e questo vantaggio è sistematicamente crescente (da meno di 6 mesi nel 1960 a quasi 2 anni nel 2006) anche se il suo pil pro-capite andava diminuendo rispetto agli Stati Uniti». Un paradosso anche questo? O un’altra ovvietà? Ammettiamo che la durata della vita sia un indicatore di benessere in sé, come ripetono tutti per magnificare la superiorità dal modo di vivere occidentale, dove negli scorsi decenni è aumentata. In realtà noi, Delfina, non la pensiamo così perché crediamo che un indicatore più adeguato sia la durata della vita in buona salute: ciò che conta non è la quantità, ma la qualità. E le statistiche documentano che negli ultimi anni la durata della vita in buona salute è diminuita molto. Comunque sia, in un paese ricco in cui il tasso di morbilità (la percentuale delle persone in cattiva salute) è alto, si acquistano molte medicine e ciò contribuisce a far crescere il pil più che in un altro paese ricco in cui il tasso di morbilità è più basso e se ne comprano meno, per cui il pil cresce di meno. Non è lapalissiano? Se in un periodo di quasi mezzo secolo, all’aumento del divario tra la crescita del pil negli Stati Uniti e in Francia è corrisposto un andamento inversamente proporzionale della durata della vita nei due paesi, vuol dire che la crescita, contrariamente a quanto credono i suoi fanatici adoratori, è stata un indicatore di malessere, non di benessere. Del resto, basta avere una minima conoscenza dei meccanismi utilizzati dalla pubblicità per sapere che la spinta più forte al consumismo compulsivo è data da uno stato di malessere psico-fisico a cui si cerca di apportare sollievo con l’acquisto di cose. Maggiore è la sofferenza esistenziale, più forte è la propensione al consumo, maggiore il contributo che si dà alla crescita del pil. Le persone serene ed equilibrate, che dedicano una parte significativa del loro tempo e delle loro energie ai propri affetti, alla creatività e alle relazioni umane, le persone che vivono in condizioni di benessere psico-fisico, innanzitutto non comprano psicofarmaci, e inoltre comprano soltanto ciò di cui hanno effettivamente bisogno, quindi di meno, e danno un contributo inferiore alla crescita del pil.
La frutta che raccogli dai tuoi alberi e la verdura che coltivi nel tuo orto sono più sane e più buone della frutta e della verdura che vendono nei supermercati di Cuneo e Napoli. Ma non fanno crescere il pil. Io, che vivo in città e non ho un orto, le compro col gruppo d’acquisto solidale direttamente dai produttori, saltando tutte le intermediazioni commerciali. Lo faccio decrescere anche io il pil, anche se un po’ meno di te. Ma l’aria che respiro non è pura come quella che tu respiri e fuori dalla porta di casa mia non c’è un bosco dove andare a fare una passeggiata. Non fanno crescere il pil nemmeno le passeggiate nei boschi, ma non sai quanto rimpiango quelle che facevo con voi durante le libere uscite, nell’anno in cui posso dire di essere diventato uomo di mondo perché ho fatto il militare a Cuneo.
Un abbraccio
tuo Totò