La favola del “benessere” animale. Parte seconda

da | 20 Feb 2015

«I bufali maschi vengono ammazzati, non lo sapevi questo? È uno scandalo e nessuno ne parla. (…) Nel sud, se nascono 30.000 bufali di cui 15.000 sono maschi secondo me di essi ne sopravvivono solo 10 perché i piccoli maschi sono un costo pazzesco negli indici di conversione. (…) Li ho visti io, messi dentro e ammazzati con l’ammoniaca.

Cioè che metodo usano?

Li soffocano. O li sgozzano. Sto pensando anche ai servizi ASL della Campania: sarei curioso di sapere cosa dicono di tutto questo. (…)

Hai detto che non sono remunerativi.

Sì. Il motivo per cui non li allevano è che il bufalo è un animale molto energivoro e questo si vede anche nella produzione di latte. Il bufalo ha un latte che ha una ricchezza in grasso pazzesca, il 7%, che lo rende molto più energetico rispetto al latte di vacca in cui il grasso va dal 3,5 al 4%. In più ha una quota proteica lievemente superiore. A causa di ciò le esigenze di un litro di latte di vacca da un punto di vista energetico sono del 40% in meno di quelle del latte di bufala.»

Mi aveva raccontato questo e altro Sergio poche settimane prima quando ero andato a intervistarlo a casa sua. E anche questa parte del nostro dialogo entrò in Un pianeta a tavola. Adesso stiamo varcando i cancelli del secondo allevamento, quello “diverso”. E l’atmosfera in effetti diversa lo è: un vecchio edificio di pietra, staccionate di legno, tutto un po’ in stile Nonna Papera insomma. Qui si allevano maiali e soprattutto bufali maschi, quelli che altrove fanno la fine che Sergio mi aveva descritto e che qui vengono messi invece all’ingrasso e destinati a una fine più commestibile (che però non necessariamente fa rima con sostenibile).

Cominciamo però dai maiali, se non altro perché il loro recinto è vicino all’ingresso. Sono pochi, hanno a disposizione uno spazio molto ampio e soprattutto si direbbero tranquilli e del tutto indifferenti alla nostra presenza. Una cosa che colpisce tuttavia nello spazio all’interno del recinto è che esso è del tutto spoglio, non un cespuglio o un filo d’erba; un monotono spiazzo di terra fangosa movimentato soltanto da alcuni ripari metallici per le mangiatoie. Ammetto di non sapere molto sull’etologia del maiale tuttavia sappiamo che egli è un parente stretto del cinghiale, dunque un animale dei boschi. Il suo habitat naturale è in altre parole un ambiente ricco e vario dove ogni angolo nasconde una novità, l’esatto opposto insomma di quel vuoto perfetto in cui li vedo qui confinati.

Ci avviciniamo poi al recinto dei bufali mentre il padrone della fattoria ci viene incontro. Sono molto più numerosi dei maiali e la mia prima impressione è che siano troppi in uno spazio troppo stretto. Il bufalo proviene dai grandi spazi dell’Asia e mal si adatta ai piccoli orizzonti in cui lo costringe l’allevamento in un paese come l’Italia, dove di spazio ce n’è ben poco. A differenza dei maiali i bufali non sono indifferenti alla nostra presenza; ci guardano con attenzione, si affollano nel punto del recinto più vicino a noi. Perché? Ho la sensazione che in quegli sguardi così insistenti ci sia una qualche richiesta, ma di cosa non potrei dirlo.

Facciamo rapidamente il giro della fattoria, molto più piccola della precedente ed entriamo infine nel laboratorio per la lavorazione della carne. Qui l’atmosfera alla Nonna Papera svanisce di colpo per lasciare il posto a una gelida estetica da sala operatoria. L’allevatore illustra nei dettagli tutte le operazioni che vi si svolgono poi si comincia ad allargare l’orizzonte del discorso. A un certo punto dice: «Ora stanno demonizzando la zootecnia perché la accusano di essere responsabile del buco dell’ozono». Si, hai letto bene perplesso lettore, dice proprio “del buco dell’ozono”. «No, dell’effetto serra» lo corregge Sergio e l’allevatore passa discretamente ad altri argomenti. Soffermiamoci invece su questa gaffe visto che da alcuni anni, per l’esattezza dopo il rapporto FAO del 2006, è in corso, direi a livello mondiale, una sorta di gigantesca (ed efficace) operazione greenwashing da parte dell’industria zootecnica che ci mette ogni sforzo (mediatico) per dimostrare la sua “verdosità”. Sono tutti “verdi”, ecologisti, ecosostenibili e benemeriti dell’ambiente. Quelli alla Nonna Papera poi, forti del luogo comune (falso, come abbiamo visto dal rapporto FAO) secondo cui sarebbe solo la zootecnia industriale a fare danni, si atteggiano a così verdi che più verde non si può e garantiscono che i veri ecologisti sono loro. Forti di quanta profonda consapevolezza, cultura e preparazione sulle grandi problematiche ambientali del pianeta, lo abbiamo appena visto in una sola frase.

Facciamo ora un salto in avanti nel tempo di alcuni mesi. La prima parte di Un pianeta a tavola è ormai conclusa e sto per completare la ricerca di esperienze di sostenibilità agroalimentare realizzata che concluderà la seconda parte mentre sono già in contatto con Luca Menti, lo psicologo che darà un contributo importante alla terza. Nella mia vana ricerca di esperienze compiute di permacoltura sono giunto alla cascina Santa Brera di Irene di Carpegna, un luogo in bilico fra luci e ombre nei pressi di Melegnano. Delle luci (l’orto in adozione) ho riferito in Un pianeta a tavola; parliamo invece qui un po’ delle ombre. Il dialogo con Irene inizia con un suo ampio monologo durante il quale mi illustra dettagliatamente ogni aspetto della fattoria. I primi 30 minuti li dedica alla produzione animale e solo i successivi 15 a quella vegetale. A questo punto è già chiaro in che direzione è orientato il suo principale interesse e che dunque quel luogo non è ciò che sto cercando. Tuttavia già che sono lì penso che sia il caso di approfondire e a un certo punto domando: «secondo te, producendo come produci tu, ovvero con ampi spazi, colture biologiche, rispetto delle esigenze etologiche degli animali, rifiuto assoluto di qualsiasi metodo intensivo, minima meccanizzazione si riesce a produrre quei 90 Kg di carne all’anno a persona che sono i consumi oggi correnti in Italia?» Non esagero nel dire che la risposta di Irene rappresenta il momento più sconcertante dei tre anni che ho trascorso immerso in questa ricerca sulla sostenibilità alimentare. «90 Kg?» mi dice «non sono tanti. Certo che ci si riesce.» Non sono tanti: ancora una volta hai letto bene attonito lettore, dice proprio così. Mi faccio dare un po’ di dati sulla sua produzione e, tornato a casa, faccio quattro semplici conti. Per produrre 90 Kg di carne all’anno moltiplicati per 60 milioni di persone con la produttività della cascina di Irene occorrerebbero 100.000 Kmq di pianura padana da dedicare solo a quello. Dico di pianura padana perché il metodo applicato da Irene, che è poi quello del pascolo intensivo sul modello dell’americano Joel Salatin, non si pratica certo sui terreni poveri di montagna. È un metodo che richiede terreno ricco, fertile, insomma terreno agricolo coltivabile da sottrarre dunque all’agricoltura. E comunque di pianura padana ne abbiamo meno della metà di quel che servirebbe. La realtà è che quei 90 Kg all’anno a persona non riusciamo a produrli in Italia nemmeno con la più bieca zootecnia industriale. Non c’è abbastanza territorio, punto e basta. E non serve indignarsi per i prosciutti importati a profusione dalla parte opposta del mondo: se ne vogliamo così tanti accettiamo che vengano da nonsodove perché qui non si vede come li si possa produrre. Non si può far entrare un elefante in una scatola di scarpe. E la zootecnia ha appunto le dimensioni, la leggerezza, le leggiadre movenze di un elefante obeso. È un modo di produrre cibo intrinsecamente dissipativo. E non c’è altro da dire.

Anzi no, un’ultima cosa c’è. Perché una settimana dopo il colloquio con Irene, non amando le cose incompiute, torno alla cascina per fare ciò che avevo fatto in tutti gli altri luoghi che avevo visitato in quei mesi, ovvero vedere tutto di persona. È prevista una visita guidata e non volevo perdere l’occasione di accodarmi. Quanto ho visto di produzione vegetale l’ho brevemente descritto nel libro. Qui parlerò della produzione animale. Non riusciamo a vedere i bovini che «a quest’ora sono già nelle stalle», ci spiega Sandra, la collaboratrice di Irene che ci guida lungo il percorso, ma vediamo i polli e i maiali. I polli sono ospitati in ampie aree recintate al centro di ognuna delle quali c’è una sorta di carrozzone di legno che è il pollaio. Queste aree sono il loro pascolo. Il pollaio ha le ruote perché periodicamente bisogna spostare i polli a rotazione in altre aree man mano che quel pascolo si esaurisce affinché esso possa rigenerarsi. Il numero dei polli di ciascun gruppo è limitato dalla loro capacità di riconoscersi l’un l’altro, come avverrebbe in natura e credo sia attorno al centinaio.

Passiamo poi ai maiali, anche qui pochi, tranquilli e indifferenti alla nostra presenza come nell’altra fattoria. E anche qui confinati in uno spazio ampio ma totalmente spoglio e fangoso. All’interno del recinto tuttavia c’è una cosa dall’aspetto piuttosto lugubre che nell’altra non c’era o quanto meno non in quel momento. Una sorta di tunnel fatto di sbarre metalliche del tutto identiche a quelle di cui avevo visto così gran profusione nel primo allevamento visitato con Sergio, quello intensivo, un tunnel che inizia e finisce senza condurre a nulla, apparentemente del tutto fine a se stesso. Un’opera d’arte contemporanea? Alcuni bambini della comitiva di visitatori domandano cos’è e Sandra spiega che quel tunnel purtroppo (inizia così, dicendo purtroppo) è del tutto identico a quello che i maiali dovranno attraversare di lì a poco nel mattatoio che li attende e serve ad abituarli alla sua presenza affinché nel momento cruciale, quando si troveranno davanti al tunnel vero, lo attraversino senza paura. La comitiva passa oltre, diretta al frutteto e passano oltre anche i pensieri dei suoi membri. I miei rimangono invece attaccati a quella parola, purtroppo, che meriterebbe ben altro approfondimento. Perché Sandra ha detto purtroppo?Pensate se l’avesse detto un po’ più avanti a proposito della raccolta delle pesche, se avesse detto che purtroppo vanno strappate dalla pianta. Tutti l’avrebbero trovato senza senso. Detta in quell’altro contesto invece quella parola appare a tutti perfettamente naturale. Una differenza su cui poco si riflette, anzi su cui non si riflette e che invece spalanca le porte di un discorso vastissimo che coinvolge la posizione stessa dell’uomo sulla Terra e che non era compito di Un pianeta a tavola affrontare. Per questo nell’epilogo scrivo che il vero centro di quel problema che la presenza dell’uomo sulla Terra oggi rappresenta appartiene alle pagine di un libro ancora da scrivere e che su questi territori ancora inesplorati, che sono poi i cupi territori di quella allucinazione collettiva che va sotto il nome di cultura del dominio, Un pianeta a tavola ha solo socchiuso una piccola porticina. Che sarà tuttavia necessario al più presto spalancare. Purtroppo.

 Filippo Schillaci