Istituto di Studi Interdisciplinari sulla Bioeconomia, ISIB

da | 19 Ago 2016

La produzione di merci a livello mondiale ha superato la capacità del pianeta di fornirle le risorse rinnovabili di cui ha bisogno, ha ridotto drasticamente i giacimenti di molte risorse non rinnovabili accrescendone i costi di estrazione e aumentando l’incidenza dei danni ambientali che provoca, ha superato le capacità della biosfera di metabolizzare gli scarti biodegradabili che genera, ha accresciuto le quantità delle sostanze di sintesi chimica, tossiche e non tossiche, non metabolizzabili dalla biosfera.

Il giorno in cui l’umanità consuma tutte le risorse rinnovabili rigenerate annualmente dal pianeta attraverso la fotosintesi clorofilliana, è sceso alla metà d’agosto. E non si può sottacere che la maggior parte della popolazione mondiale ne consuma meno di quanto sarebbe necessario per vivere dignitosamente, o soltanto per sopravvivere. L’eroei (energy returned on energy invested: il rapporto tra l’energia consumata per ricavare energia e l’energia ricavata), nel settore delle fonti fossili è sceso dal valore di 1 / 100 del 1940 al valore di 1 / 6 alla fine del secolo scorso. Le sempre maggiori difficoltà a soddisfare la domanda di energia che ne sono conseguite hanno accresciuto i disastri ambientali e le catastrofi umanitarie: sversamenti di enormi quantità di petrolio negli oceani (le maree nere), uso di una tecnica devastante come il fracking per ricavare idrocarburi dagli scisti bituminosi, gravissimi incidenti nelle centrali nucleari con cui si compensa l’insufficienza della produzione di energia termoelettrica, conflitti sempre più sanguinosi e diffusi per controllare le aree del pianeta in cui insistono i giacimenti più abbondanti di petrolio e metano. L’aumento delle emissioni di anidride carbonica connessi all’uso delle fonti fossili e la riduzione della capacità del pianeta di metabolizzarle con la fotosintesi clorofilliana in conseguenza dell’abbattimento di boschi e foreste, della riduzione del plancton conseguente all’innalzamento della temperatura degli oceani, della mineralizzazione dei suoli agricoli causata dalla concimazione chimica per accrescerne le rese, hanno aumentato in poco più di un secolo le concentrazioni di anidride carbonica in atmosfera da 270  a 410 parti per milione, provocando un innalzamento della temperatura terrestre e un mutamento climatico di cui si cominciano appena a sperimentare gli effetti devastanti. Negli oceani galleggiano masse di poltiglie di plastica grandi come continenti. Le sostanze tossiche e le sostanze di sintesi chimica usate in agricoltura e in alcuni processi industriali danneggiano quantità sempre maggiori di specie viventi, hanno fatto diminuire la fertilità dei suoli, hanno ridotto la biodiversità, hanno aumentato la diffusione di malattie incurabili nella specie umana.

La crescita della produzione di merci è la causa della crisi ecologica che sta minacciando la sopravvivenza stessa dell’umanità. Fino a quando si continuerà a finalizzare l’economia alla crescita della produzione di merci la crisi ecologica è destinata ad aggravarsi.

 

La finalizzazione delle attività produttive alla crescita della produzione di merci è anche la causa di fondo della crisi economica iniziata nel 2008, che le tradizionali misure di politica monetaria e fiscale non sono state in grado di debellare perché non è una crisi congiunturale, cioè un’anomalia temporanea nel funzionamento del sistema economico e produttivo, ma la conseguenza inevitabile del suo modo di funzionare. Se il fine delle attività produttive è la crescita della produzione di merci, le aziende non possono non investire sistematicamente in tecnologie che aumentano la produttività, ovvero che consentono di produrre di più in una unità di tempo, riducendo l’incidenza del lavoro umano sul valore aggiunto. Ciò non comporta automaticamente, come in genere si pensa, una riduzione dell’occupazione. L’occupazione non diminuirebbe se in conseguenza degli aumenti di produttività si decidesse di ridurre l’orario di lavoro. Tuttavia la concorrenza non consente di fare questa scelta, per cui, se si decide di mantenere intatta la durata dell’orario di lavoro, come è successo e succede, diminuisce il numero degli occupati.

Nei trent’anni d’intensa crescita economica successivi alla fine della seconda guerra mondiale, che gli economisti francesi hanno definito gloriosi, la riduzione del numero degli occupati in agricoltura è stata in gran parte assorbita dagli incrementi degli occupati nell’industria e nei servizi, la successiva riduzione degli occupati nell’industria è stata assorbita dagli ulteriori incrementi degli occupati nei servizi, la riduzione degli occupati nei settori industriali maturi e nei servizi è stata assorbita dalla produzione di nuovi oggetti sempre più perfezionati e dalla fornitura di nuovi servizi, dalla produzione delle tecnologie che riducono l’incidenza del lavoro umano sul valore aggiunto, dalla produzione di oggetti progettati per non durare a lungo (obsolescenza programmata), o in modo da non poter essere riparati, al fine di accelerare i processi di sostituzione. Tutto ciò ha ritardato la crisi economica, ma ha aggravato la crisi ecologica perché ha accresciuto i consumi di materia e di energia, aumentando al contempo i rifiuti e le emissioni di sostanze non biodegradabili dalla biosfera. Se in conseguenza degli aumenti di produttività non si riduce l’orario di lavoro ma il numero degli occupati, diminuisce la domanda a fronte di incrementi dell’offerta di merci. Questo problema è stato affrontato, a partire dagli anni sessanta del secolo scorso, incentivando l’indebitamento pubblico e privato per aumentare la domanda. La crescita dei debiti è stata l’altra faccia della medaglia della crescita della produzione di merci. Quando l’aumento della produttività non accompagnata da una riduzione dell’orario di lavoro si è estesa al settore terziario, l’occupazione ha iniziato a diminuire: DATE E DATI

 

A partire dagli anni ottanta il divario tra incrementi dell’offerta e diminuzione della domanda è stato accentuato dalla globalizzazione, ovvero dalla rapida estensione del modo di produzione industriale a paesi che fino ad allora ne erano rimasti relativamente ai margini, in cui vive quasi la metà della popolazione mondiale: la Cina, l’India e il sud est asiatico, la Russia e i paesi dell’Europa dell’est, il Brasile. La globalizzazione era indispensabile per consentire al sistema economico e produttivo industriale di continuare a crescere, perché ha fatto aumentare sia il numero dei produttori e dei consumatori di merci, sia i mercati in cui venderle, da cui attingere le materie prime necessarie a produrle, in cui delocalizzare gli impianti per sfruttare il vantaggio concorrenziale offerto dai costi inferiori della manodopera. Tra «il 1980 […] e il 2006, la quota dei salari sul Pil nei paesi che formavano a inizio periodo la UE a 15 è scesa di circa 10 punti, dal 68 a 58 per cento» (Luciano Gallino, Il denaro, il debito e la doppia crisi, Einaudi, Torino 2015, p. 110). La riduzione delle retribuzioni e dell’occupazione nei paesi sviluppati ha comportato una riduzione della domanda, che ha costituito uno dei fattori scatenanti della crisi iniziata nel 2008 e causa difficoltà sempre maggiori a superarla. Le leggi con cui il padronato e i governi dei paesi dell’Europa nord-occidentale di comune accordo presumono di riuscire a sostenere la concorrenza con i costi del lavoro nei paesi in via di sviluppo riducendo le tutele sindacali degli occupati e aumentando i contratti di lavoro precari – il jobs act in Italia e la loi travail in Francia – contrariamente alle aspettative con cui vengono adottate, non fanno crescere l’occupazione e contribuiscono ad aggravare la crisi. A complicare il quadro è intervenuto, a partire dal 2015, un rallentamento significativo delle economie dei paesi emergenti che con la loro crescita sostenuta compensavano la debolezza della domanda interna dei paesi di più antica industrializzazione e trainavano l’economia mondiale. L’economia dei paesi industrializzati è entrata in un vicolo cieco, perché se non cresce entra in crisi, senza la globalizzazione non può più crescere, la crescita viene strozzata dalla globalizzazione.
Se la crescita della produzione di merci è la causa sia della crisi ecologica, sia della crisi economica che stanno minacciando il futuro dell’umanità, l’attenuazione di entrambe presuppone l’abbandono della finalizzazione dell’economia alla crescita.

 

La crisi economica non può essere superata con le politiche economiche tradizionalmente utilizzate per rilanciare la crescita, perché nessun problema si può risolvere rafforzando le cause che l’hanno provocato. Se si valuta che per far ripartire la crescita occorre prioritariamente ridurre il debito pubblico, si tagliano le spese dei servizi sociali (sanità, scuola, assistenza, innalzamento dell’età pensionabile), scaricando i costi del risanamento economico sulle classi subalterne. In questo modo però si accentua la crisi, perché le politiche di austerity deprimono la domanda interna. Se invece si ritiene che per far ripartire la crescita sia necessario sostenere la domanda incentivando l’aumento della spesa pubblica in deficit, o aumentando i redditi più bassi per far crescere il potere d’acquisto delle famiglie, non si prende in considerazione il fatto che l’aumento dei debiti monetari è soltanto l’epifenomeno di un aumento del consumo di risorse e delle emissioni di sostanze di scarto nella biosfera. Ciò comporta un aggravamento della crisi ambientale di cui pagheranno i costi le generazioni future. Per ridurre queste conseguenze negative, i sostenitori delle politiche neo-keynesiane propongono per lo più di incentivare gli investimenti nella green economy: energie rinnovabili, tecnologie che aumentano l’efficienza dei processi di trasformazione delle risorse naturali in beni, tecnologie che riducono l’inquinamento, recupero e riuso dei materiali contenuti negli oggetti dismessi (economia circolare). Tuttavia, se queste scelte vengono fatte allo scopo di rilanciare la crescita economica nell’ottica del cosiddetto sviluppo sostenibile, i vantaggi ambientali che si ottengono per unità di prodotto sono vanificati, come in una gigantesca fatica di Sisifo, dall’aumento della quantità dei prodotti in valori assoluti. Possono pertanto riuscire soltanto a ritardare il momento in cui il consumo delle risorse e l’inquinamento distruggeranno definitivamente gli equilibri ambientali che hanno consentito lo sviluppo della specie umana. Le tecnologie che riducono il consumo di risorse e l’inquinamento per unità di prodotto possono attenuare la crisi ecologica solo se sono finalizzate a ridurre il consumo delle risorse e le emissioni dei processi produttivi e dei prodotti, riconducendole a valori compatibili con il flusso energetico inviato quotidianamente dal sole sulla terra e utilizzato dalla vegetazione per effettuare la fotosintesi clorofilliana. Solo se l’economia diventa bio-economia, secondo le indicazioni di Nicholas Georgescu Roegen, e non nell’interpretazione puramente nominalistica e caricaturale che ne ha dato l’Unione europea.

 

I tentativi di superare la crisi economica e di attenuare i più gravi fattori della crisi ambientale sono falliti perché sono stati indirizzati a rimuovere con interventi settoriali le loro cause immediate, senza modificare la finalizzazione dell’economia alla crescita, che le rafforza. Questi fallimenti impongono di rimettere in discussione il paradigma culturale su cui si fonda il modo di produzione industriale. In particolare:

– la concezione della scienza e della tecnologia come strumenti di dominio della specie umana sulla natura, a partire dalla formulazione che ne è stata data filosofo inglese Francis Bacon nella prima metà del XVII secolo;

– la concezione dell’antropocentrismo come superiorità ontologica che autorizza la specie umana a utilizzare ai suoi fini tutte le altre specie viventi, formulata qualche decennio dopo dal filosofo francese René Descartes;

– la concezione della storia come progresso, cioè come costante avanzamento dell’umanità verso il meglio, fondata sull’identificazione del progresso con i progressi scientifici e tecnologici, a partire dalla formulazione che ne è stata data dall’Illuminismo;

– l’individuazione della competizione tra gli individui come fattore determinante dell’evoluzione delle specie;

– l’identificazione della crescita della produzione di merci col benessere, in base a un’interpretazione del prodotto interno lordo non corrispondente alle finalità con cui questo parametro era stato messo a punto dall’economista Simon Kuznets negli anni trenta del secolo sorso;

– la conseguente identificazione del concetto di bene col concetto di merce, del lavoro con l’occupazione e della ricchezza col denaro;

– la riduzione degli esseri umani al ruolo di produttori/consumatori di merci e la mercificazione delle relazioni umane;

– la cancellazione della spiritualità come elemento costitutivo della natura umana;

– l’abolizione del concetto di limite.

 

Tutti questi aspetti sono strettamente intrecciati tra loro. È il loro insieme, sono le relazioni che li connettono e su cui si fondano reciprocamente a definire il paradigma culturale del modo di produzione industriale. Non è possibile sottoporli a critica singolarmente omettendo di prendere in considerazione il sostegno che ricevono dagli altri e non è possibile ipotizzare alternative settoriali senza prendere in considerazione le conseguenze che ne deriverebbero sull’insieme. Solo un metodo di ricerca interdisciplinare consente di percepire sia le connessioni che li legano, sia il ruolo di ognuno di essi nella definizione di un sistema di valori fondato sul dominio e sulla sopraffazione, della specie umana sulle altre specie viventi e di una limitata percentuale di esseri umani sulla totalità della loro specie. Questo sistema di valori e i modelli di comportamento che ne derivano hanno avviato un processo sempre più accelerato di autoannientamento dell’umanità. Nonostante ciò, acquisiscono un consenso sempre più vasto nel mondo. È per contrastare queste tendenze che si propone la costituzione di un «Istituto di Studi Interdisciplinari sulla Bioeconomia», ISIB, con l’obbiettivo di mettere a confronto studiosi e docenti di varie discipline, artisti, filosofi, letterati e musicisti, professionisti, imprenditori e sindacalisti, su progetti di ricerca finalizzati a:

– individuare i riferimenti culturali su cui si fondano le scelte economiche, tecnologiche, politiche e comportamentali che costituiscono le cause dell’attuale crisi di civiltà, in cui confluiscono gli effetti della crisi economica, della crisi ecologica e delle connessioni che le rafforzano vicendevolmente;

– analizzare le conseguenze di queste scelte sul  progressivo aggravamento della crisi economica, della crisi ecologica e della crisi sociale;

– formulare proposte tecnologiche, economiche, politiche e sociali in grado di attenuare i fattori di crisi, contribuendo al contempo a delineare gli elementi di un paradigma culturale e di un sistema di valori alternativo;

– svolgere attività di formazione culturale a vari livelli e di divulgazione dei risultati delle ricerche effettuate.

 

Tutte le ricerche dell’ ISIB saranno indirizzate alla riduzione dell’impronta ecologica, in prospettiva al valore 1, con un’alta qualità della vita in tutti i suoi aspetti: materiali, spirituali, intellettuali, relazionali e creativi. Questo obbiettivo, pur non essendo realisticamente raggiungibile in tempi brevi, è l’orizzonte a cui tendono le sue ricerche, la stella polare che orienta le sue attività. La direzione che indica è l’unica che consente di fermare la corsa dell’umanità verso l’auto estinzione. Nell’attuale fase storica il Progresso non può che consistere nei progressi, in senso etimologico, su questa strada. Le ricerche dell’ISIB saranno finalizzate a fornire indicazioni per effettuare i cambiamenti culturali necessari a compierli; per liberare il sistema economico e produttivo dalla distopia della crescita della produzione di merci e ricondurlo alla finalità di produrre beni atti a soddisfare i bisogni degli esseri umani; per suggerire agli operatori economici i settori produttivi e le innovazioni tecnologiche in cui investire, perché, oltre a essere convenienti economicamente, consentono di migliorare la vita di percentuali sempre più ampie della popolazione umana senza eccedere le capacità della biosfera di fornire le risorse da trasformare in beni e di assorbire gli scarti dei cicli produttivi; per aiutare i decisori politici ad approvare misure legislative che favoriscano una maggiore equità tra le classi sociali, tra i popoli, tra le generazioni attuali e le generazioni a venire, tra la specie umana e le altre specie viventi.

 

L’obbiettivo dell’impronta ecologica 1 può essere perseguito con ragionevoli possibilità di successo solo in ambiti territoriali limitati, abitati da nuclei ristretti di persone molto motivate. Cosa di per sé positiva ben oltre i risultati concreti che consente di ottenere in termini di riduzione della crisi economica e della crisi ambientale, perché dimostrerebbe la praticabilità e i vantaggi insiti in un’organizzazione sociale che decida di utilizzare le tecnologie più avanzate per ridurre la propria impronta ecologica, di ridurre la dipendenza dal mercato globale e valorizzare l’autoproduzione di beni, di improntare le scelte esistenziali alla moderazione e i rapporti interpersonali sulla collaborazione e sulla solidarietà. L’ISIB sosterrà esperienze di questo genere perché possono costituire le anticipazioni sperimentali del cambiamento di paradigma culturale a cui si propone di  apportare i suoi contributi.

 

L’impronta ecologica che l’ISIB si pone come orizzonte delle proprie ricerche è quella italiana. Un obbiettivo che nella fase di avvio delle sue attività eccede di gran lunga le sue capacità e, tuttavia, costituisce un ambito limitato rispetto alla dimensione globale del problema. In realtà l’orizzonte è più ampio di quanto può apparire, perché negli altri paesi di più antica industrializzazione i problemi sono identici, anche se differisce la loro gravità, mentre i paesi di più recente industrializzazione stanno ripercorrendo le tappe dello stesso percorso, per cui le ricerche dell’istituto possono avere una valenza più ampia dell’ambito a cui si riferiscono. In ogni caso la sua attività sarà caratterizzata dalla ricerca di collegamenti e sinergie con istituti e gruppi di ricerca analoghi operanti in altri paesi.

 

Nei progetti di ricerca interdisciplinari dell’ISIB l’elemento che unificherà i contributi specifici delle diverse competenze professionali sarà l’apporto che ciascuna di esse è in grado di dare all’obbiettivo della riduzione dell’impronta ecologica. Questi contributi sono indicati schematicamente e in linea di massima nei seguenti paragrafi.

 

Le ricerche in ambito scientifico e tecnologico avranno come modello di riferimento i processi biologici e biomeccanici della natura e saranno indirizzate a:

– ridurre i flussi di materia ed energia in input nei processi industriali, ridurre gli scarti e i rifiuti (cradle to cradle), ridurre gli impatti ambientali locali e globali, soddisfare le esigenze locali nel rispetto delle tradizioni e del territorio, rivalutare la soddisfazione nell’uso della propria creatività e delle proprie abilità;

– ridurre le concentrazioni di anidride carbonica in atmosfera mediante una strategia in quattro punti: riduzione dei consumi energetici aumentando l’efficienza dei processi di trasformazione e degli usi finali dell’energia, soddisfazione del fabbisogno energetico residuo con fonti rinnovabili, sviluppo delle fonti rinnovabili in piccoli impianti per autoconsumo (sia per evitare l’impatto ambientale dei grandi impianti alimentati da fonti rinnovabili, sia per democratizzare la produzione energetica, riducendo il potere incontrollabile politicamente delle multinazionali dell’energia), trasformazione della rete di distribuzione in una rete di reti sul modello di internet, per consentire gli scambi delle eccedenze tra piccoli impianti;

– sostituire le sostanze di sintesi chimica non biodegradabili con sostanze  biodegradabili;

– promuovere la progettazione di oggetti finalizzati a durare nel tempo, riparabili, disegnati in modo che al termine della loro vita i materiali di cui sono composti si possano suddividere per tipologie omogenee, recuperare e riutilizzare;

– promuovere la progettazione di cicli di produzione finalizzati a ridurre i consumi di acqua, energia e materia per unità di prodotto;

– ridurre le quantità degli oggetti dismessi che vengono smaltiti nelle discariche e negli inceneritori;

  • recuperare in modi ecologicamente corretti i materiali riutilizzabili nelle discariche di rifiuti solidi urbani e industriali accumulati nei decenni passati.La finalizzazione dell’agricoltura e dell’allevamento alla crescita della produzione di merci ha causato conseguenze particolarmente negative sulla biosfera: ha dato il contributo più alto alla deforestazione e agli aumenti delle concentrazioni di sostanze climalteranti in atmosfera, ha ridotto la fertilità dei suoli, ha utilizzato quantità crescenti di veleni di sintesi chimica che si concentrano nelle catene alimentari e si diffondono nel ciclo delle acque, ha fatto crescere la percentuale di popolazione mondiale che patisce la fame, ha distrutto l’agricoltura contadina tradizionale. Nell’ambito concettuale della bio-economia e in termini di riduzione dell’impronta ecologica è indispensabile che le attività agricole siano finalizzate a riportare gradualmente al 31 dicembre, dal 15 agosto registrato nel 2015, il giorno in cui l’umanità consuma le risorse rinnovabili che la fotosintesi clorofilliana rigenera nel corso di un anno. Poiché questo obbiettivo non è perseguibile in tempi brevi a livello globale e nemmeno a livello nazionale, l’ambito di riferimento dell’ISIB saranno le esperienze che possono essere realizzate a livello locale. A tal fine la sua attività sarà indirizzata a:- ridurre gli allevamenti e la superficie dei terreni agricoli utilizzati per coltivare cibo per gli animali d’allevamento: questa scelta è fondamentale, non solo per contrastare la fame e la denutrizione della percentuale più povera della popolazione umana, ma anche per ridurre il consumo di risorse rinnovabili con l’obbiettivo di riportare progressivamente il giorno in cui l’umanità arriva a consumare le risorse rinnovabili che l’ecosistema terrestre rigenera nel corso dell’anno alla sua scadenza fisiologica del 31 dicembre;
  • – valorizzare culturalmente, promuovere politicamente e sostenere mediante corsi di formazione lo sviluppo di piccole proprietà agricole e dell’agricoltura contadina di sussistenza con vendita delle eccedenze, la diffusione di forme di commercializzazione diretta dei prodotti agricoli tra produttori e acquirenti, la riduzione dell’uso di prodotti chimici, la massima biodiversità e le filiere corte in funzione della massima autosufficienza alimentare degli ambiti territoriali in cui si pratica questo tipo di agricoltura;
  • aumentare le superfici ricoperte da boschi e foreste.Le ricerche e le proposte nell’ambito dell’agricoltura saranno strettamente correlate con quelle sul consumo di suolo e l’urbanizzazione. In questo settore la riduzione dell’impronta ecologica si può ottenere non solo mediante cambiamenti profondi delle politiche amministrative, ma anche del sistema dei valori e degli stili di vita. Le linee generali dell’impegno dell’ISIB in questa direzione saranno:- favorire l’uso agricolo di terreni non edificati nelle aree urbane e la rinaturalizzazione dei terreni in cui vengono abbattuti edifici fatiscenti non più in uso;- indirizzare le politiche urbanistiche in direzione della rigenerazione urbana mediante la ristrutturazione energetica ed estetica degli edifici, in particolare quelli costruiti dalla seconda metà del secolo scorso; realizzare interventi di forestazione urbana per ridurre l’impermeabilizzazione dei suoli, favorire l’ombreggiamento degli edifici in estate, ridurre la radiazione infrarossa assorbita dall’asfalto e dal cemento; ridefinire i quartieri sul modello dei paesi, con la presenza della maggior parte dei servizi a distanze raggiungibili a piedi.Per poter diventare operative, le proposte di carattere tecnico che consentono di ridurre l’impronta ecologica devono essere percepite come progressi ed essere desiderate come fattori che migliorano la qualità della vita. A tal fine l’ISIB si impegna a individuare e sviluppare gli elementi fondanti di un sistema di valori alternativo a quello che indica nella crescita della produzione e del consumo di merci il senso della vita individuale e sociale. Gli ambiti in cui svilupperà le sue ricerche sono:- la critica all’applicazione del concetto di sviluppo alle società e del concetto di sviluppo sostenibile che ne è stato dedotto;- la riduzione del tempo di lavoro nella vita degli esseri umani, ridimensionandone concettualmente l’importanza nella definizione del loro ruolo sociale e rivalutando il tempo delle attività non produttive, non più connotate come tempo libero dal lavoro, ma come tempo della creatività, delle relazioni, della contemplazione, della conoscenza disinteressata, nell’ottica della priorità data dalla cultura greco-latina all’otium/scholé sul nec-otium, liberata dalla connotazione di stato privilegiato per pochi ed estesa a condizione esistenziale per tutti, nell’ottica della regola benedettina dell’ora et labora.La finalizzazione dell’economia alla crescita della produzione di merci si basa sulla convinzione che tutte le specie viventi, vegetali e animali, non abbiano un valore in sé, ma solo in funzione dell’utilità che la specie umana può ricavare dal loro sfruttamento, che la specie umana abbia il diritto di utilizzarle nei modi più funzionali alle sue esigenze, che la natura e la terra siano un serbatoio di risorse a sua disposizione. In realtà, poiché tutte le forme di vita sono connesse tra loro e con gli ambienti in cui vivono, gli interventi con cui la specie umana accresce il suo dominio sulla natura e lo sfruttamento di altre specie viventi, danneggiano non solo quelle che li subiscono direttamente, ma si estendono a tutte le altre, esseri umani compresi. Le conseguenze sempre più devastanti di queste dinamiche impongono di affrontare il tema dell’estensione del diritto e delle tutele giuridiche a tutte le forme di vita. Per ragioni etiche innanzitutto, perché lo sfruttamento degli animali d’allevamento ha raggiunto forme di crudeltà intollerabili e lo sfruttamento della terra sta estendendo la desertificazione, ma anche per le sofferenze sempre più gravi che la violenza esercitata sulla natura e sulle specie viventi non umane scarica sulla specie umana.Per approfondire queste tematiche l’ISIB istituirà gruppi di lavoro che, a partire da una critica filosofica dell’antropocentrismo come diritto della specie umana di esercitare un dominio assoluto su tutte le altre specie viventi, si proporranno di:- elaborare proposte finalizzate a ripristinare ed estendere i beni comuni e gli usi civici.Nel corso del novecento la letteratura, l’arte, la musica e l’architettura hanno svolto un ruolo determinante nel processo di omologazione culturale sui valori della modernità e nella diffusione di modelli di comportamento di massa funzionali al sistema economico e produttivo industriale. Un contributo non inferiore è stato apportato dal cinema che, a partire dagli anni venti del secolo scorso ha introdotto nell’immaginario collettivo dei paesi occidentali come massima aspirazione esistenziale il desiderio di imitare gli stili di vita consumistici raggiunti dalle famiglie benestanti degli Stati Uniti. La crescita della produzione e dei consumi nei trent’anni successivi alla fine della seconda guerra mondiale ha rafforzato in questi paesi la convinzione che i progressi della scienza e della tecnologia stavano cambiando in meglio il modo di vivere proprio perché stavano costruendo un mondo completamente diverso rispetto al passato. E che il progresso sarebbe stato tanto maggiore quanto più fosse continuata quest’opera. Oggi che quell’euforia è svanita e si vedono le macerie che ha lasciato dietro di sé, e si prevedono scientificamente quelle che lascerà, occorre capire quanto sia stata alimentata da una letteratura, da una musica, da un’arte che della modernità e dell’innovazione hanno fatto il loro vessillo. A tal fine è necessario:- analizzare il ruolo dell’industria culturale nella trasformazione della letteratura, delle arti figurative e della musica in categorie merceologiche e nella loro derubricazione a intrattenimento; nella fase attuale il controllo del mercato di queste attività avviene in forma pressoché monopolistica: le concentrazioni editoriali hanno assunto un andamento analogo alle concentrazioni industriali negli altri settori produttivi, le librerie sono state trasformate in supermercati e i musei d’arte contemporanea in magazzini di catene commerciali multinazionali;- valorizzare e creare collegamenti tra i soggetti imprenditoriali indipendenti che operano nei vari ambiti culturali: case editrici, librerie, gallerie d’arte, locali cinematografici, teatri, siti on line ecc.;
  • – analizzare le possibilità offerte dalle moderne tecnologie informatiche per realizzare modalità autonome di produzione e distribuzione delle opere letterarie, artistiche, musicali, cinematografiche.
  • – studiare e far conoscere gli eretici nei confronti della concezione progressista della storia, del progresso come cesura col passato, della modernizzazione operata dalla società industriale;
  • – studiare l’influenza esercitata dai movimenti d’avanguardia nella diffusione a livello di massa di una mentalità acriticamente propensa a valutare l’innovazione come un valore in sé, a considerare la modernizzazione, l’urbanizzazione e l’industrializzazione come progressi, a identificare il progresso con lo sviluppo e con un avanzamento verso il meglio che si realizza mediante una serie di cesure successive nei confronti del passato;
  • – studiare le costituzioni dei paesi dell’America Latina in cui sono stati introdotti i diritti della natura e delle specie viventi non umane;
  • L’appropriazione delle risorse naturali e la loro mercificazione si sono progressivamente estese, a partire dalle recinzioni delle terre comuni, alle privatizzazioni dei beni demaniali, a volte mascherate da concessioni a prezzi irrisori e per periodi sempre più lunghi, alla privatizzazione di una risorsa indispensabile per la vita, come l’acqua, che occorre ricondurre alla condizione giuridica di bene comune.
  • – la ridefinizione del significato del lavoro nella sua complessità, superando la sua riduzione alla dimensione dell’occupazione, cioè della partecipazione alla produzione di merci in cambio di un reddito monetario, per ridare diritto di cittadinanza al lavoro finalizzato ad autoprodurre beni, all’economia del dono e al lavoro creativo;
  • – l’elaborazione di un parametro di benessere realmente alternativo e non integrativo del prodotto interno lordo, a differenza degli altri indicatori elaborati sino ad ora nel tentativo di salvaguardarne una validità parziale nonostante le evidenti incongruenze che presenta;
  • – incentivare l’alimentazione delle popolazioni urbane con prodotti agricoli coltivati nelle fasce agricole periurbane, per ristabilire un rapporto reciprocamente vantaggioso tra città e campagna, anche attraverso l’uso degli strumenti informatici per stabilire forme di commercializzazione diretta tra produttori e acquirenti;
  • – ridurre le superfici di territorio ricoperte di sostanze inorganiche da uno sviluppo edilizio che non ha più la funzione di rispondere a una domanda di abitazioni, luoghi di lavoro e luoghi di aggregazione sociale, ma di speculare su aree edificabili indipendentemente dall’utilità delle costruzioni che si realizzano;

 

fonte: mauriziopallante.it