Fra le immense moltitudini dei lettori di Un pianeta a tavola serpeggia ormai da tre anni una domanda: chi è Zenon Ligre, cui l’immane opera è dedicata? Bene, Zenon Ligre è il protagonista del romanzo L’opera al nero di Marguerite Yourcenar ovvero un uomo (inesistente) che coltivò la ragione mentre intorno a lui dilagava la follia. Come dieci secoli prima, come oggi. Una dedica un po’ strana per un libro dedicato all’impatto ambientale dell’alimentazione. Ne racconterò qui le ragioni.
E inizierò tornando un momento a Jean Dorst il cui Prima che la natura muoia mi fu utilissimo in molti momenti. C’è un passo di esso che non appare in Un pianeta a tavola ma che ebbi ben presente durante tutto il tempo che vi dedicai e soprattutto durante la realizzazione della terza parte, la più importante, quella in funzione della quale l’intero libro esiste e senza la quale esso non sarebbe altro che l’ennesima collezione di impotenti argomenti razionali, destinati a rimbalzare sul mondo (umano) senza lasciare traccia, come di fatto sta comunque accadendo. Il passo è questo:
Le attività umane portate al parossismo, spinte fino all’assurdo, pare che rechino in se stesse i germi della distruzione della nostra specie. Questo fenomeno ricorda la politelia osservata nel corso dell’evoluzione di certi tipi animali: un carattere comparso in una linea è in seguito capace di svilupparsi, e di svilupparsi esageratamente, fino a divenire nocivo e contrario agli interessi della specie stessa e senza avere, da quel momento, il minimo valore come mutazione di adattamento. Molte linee si sono estinte così nel corso dei tempi geologici, in seguito allo sviluppo esagerato di una caratteristica divenuta mostruosa. Ci si può chiedere se non stia accadendo lo stesso all’uomo e alla civiltà tecnica da lui creata, che gli ha permesso, all’inizio, di raggiungere un alto livello di vita ma il cui eccesso rischia di divenirgli fatale. (p. 20)
In una nota Dorst fa l’esempio del cervo d’Irlanda che «durante la sua evoluzione sviluppò palchi enormi, sempre più grandi, al punto che questa particolarità, divenuta mostruosa, contribuì senza dubbio all’estinzione naturale della specie.» Anche l’uomo ha sviluppato una caratteristica in maniera mostruosamente eccezionale ed essa lo ha condotto a divenire la specie animale più infestante (tipicamente si preferisce dire “dominante” ma io non amo il linguaggio politicamente corretto) che la Terra abbia mai conosciuto, una specie oggi pericolosa “per sé e per gli altri”. Parlo di un cervello di grandi capacità ed efficienza ma affetto da un congenito dualismo a causa del quale la specie animale cui apparteniamo è giunta a essere ciò che è stato efficacemente descritto attraverso l’immagine del bambino col mitra in mano. Diciamolo meglio: l’uomo è un animale capace di usare l’intelligenza, la razionalità al massimo grado esistente in natura in tutto ciò che è la costruzione dei propri mezzi ma è completamente ottenebrato nella definizione dei propri fini. E questa tenebra si chiama identità di gruppo. Tutta la terza parte di Un pianeta a tavola non è altro che l’itinerario concettuale e, soprattutto, sperimentale (nel senso che è basata su conoscenze ed esperienze di psicologia sociale) che conduce a questa affermazione. Lì tale itinerario è percorso con il solo scopo di spiegare la rigida, assurda, irrazionale immutabilità delle scelte alimentari ma in realtà il suo raggio d’azione è ben più vasto. Spiega il tifo calcistico, l’estensione pandemica del fenomeno delle religioni, le mode, spiega perché sul Titanic tutti ballavano mentre la nave affondava, perché tutti credono a Matteo Renzi quando farnetica ancora di crescita «senza la quale non c’è futuro», spiega l’omertà unanime, equa, assoluta e solidale di troppi ambienti “alternativi” sulla devastante questione zootecnica (cambiamento? Alternativa? Transizione? Sì, grazie. Ma non nel mio piatto), spiega perché quarant’anni fa tutti gli italiani, in perfetta sincronia, a un certo punto cominciarono a infarcire le proprie frasi di “cioè” e oggi le infarciscono identicamente di “okay”. Spiega in altre parole ogni comportamento macroscopicamente collettivo di quell’automa sociale, di quella fotocopia culturale che è l’uomo. E spiega infine perché Zenon Ligre fu condannato al rogo.
Riassumere cento pagine in poche righe non è facile ma proviamo.
L’uomo è un animale sociale, il che significa che ogni individuo vive immerso in gruppi sociali. Ogni gruppo è caratterizzato culturalmente da una identità di gruppo, cioè da una immagine del mondo, una scala di valori e un insieme di regole di comportamento che lo definisce e lo distingue dal mondo esterno. Lo scopo di un’identità di gruppo non è descrivere la realtà quale essa è ma giustificare le azioni che il gruppo compie, il modo di essere e di fare del gruppo. Tuttavia ogni individuo percepisce l’identità del proprio gruppo come immagine esatta e completa della realtà. Poiché il gruppo è la Via, la Verità e la Vita. La “Vita” soprattutto, o meglio la Sopravvivenza. Ovvero, per usare le parole di Laborit, la conservazione della propria struttura di organismo biologico. Ciò avviene nelle parti “sommerse” della psiche, ovvero nell’inconscio e non è pertanto controllabile dall’analisi critica razionale. L’individuo umano in altre parole “sente” che deve fare, pensare, dire certe cose ma non saprebbe dare una spiegazione del perché o se la dà è una spiegazione fittizia (razionalizzazione). La vera ragione – ripeto: inconscia – è che tali azioni costituiscono un messaggio di appartenenza al gruppo («io sono uno di voi»), sono simboli, segni di appartenenza. Comportarsi diversamente significa uscire dal gruppo e questo l’individuo umano, essendo in maniera innata un animale sociale, non è in grado di farlo. Ecco perché essere animale sociale è, almeno nel caso dell’uomo, antitetico all’essere animale razionale. Il gruppo è dunque un velo di nebbia fra l’individuo e la realtà. Ed è il gruppo che definisce i fini perché essi sono scritti nell’identità di gruppo e dunque: a) non sono controllabili dall’individuo; b) non sono modificabili se non attraverso l’innesco di complesse dinamiche psicosociali; c) spesso non sono aderenti alla realtà anzi ne prescindono sontuosamente.
Una volta definiti in tale allucinato modo i fini interviene la parte razionale della psiche (che, come detto, presiede alla costruzione dei mezzi) ed essi vengono perseguiti con una efficienza assoluta e pertanto devastante.
Come ho già accennato, tutto ciò non è frutto di mie convinzioni personali che, in quanto tali, non varrebbe la pena di esporre perché prive di importanza ma è semplicemente quanto si trova scritto su ogni testo di psicologia sociale, magari con quel linguaggio più “politicamente corretto” che io insisto a non usare, ma i concetti sono quelli.
E siamo così giunti un capitolo prima della fine del libro. Il quale, pur fra cotanto deserto, riesce a concludersi su una concreta, praticabile proposta operativa. Anzi su due. Tuttavia sarebbe vile nascondersi che una cupa nuvoletta si addensa su questa conclusiva, speranzosa luce. Perché il libro non si conclude con l’ultima frase dell’ultima pagina dell’ultimo capitolo bensì con la nota a piè di pagina che sta in malevolo agguato sull’ultima parola di quella frase. Non ti dirò, deluso lettore, quale dubbio insinua quella nota, quale muro erige fra te e il fantasma di quell’altro mondo che dicono possibile. Sarebbe come, in un romanzo poliziesco, rivelare il nome dell’assassino. E ti guasterei l’inquieto piacere della lettura.
Tornerò invece indietro nel tempo fino a quel febbraio del 2013 in cui, mentre una brutta influenza mi teneva bloccato a casa in una Messina in cui non avevo più nulla, ma proprio nulla da fare, tirai le fila di questo discorso. Fu in quegli stessi giorni che lessi L’opera al nero. E riflettei inevitabilmente su come l’intera storia umana è in fondo governata da ciò che ho chiamato follia ma che più correttamente bisognerebbe definire alienazione sistematica e congenita dalla realtà. Perché la follia è uno stato patologico e individuale (e come tale eccezionale) mentre qui parliamo del normale modo di funzionare della normale mente umana. Non a caso Freud sostenne che la differenza fra “normalità” e patologia è solo quantitativa, non qualitativa.
Zenon Ligre fu forse più intelligente della media degli uomini ma non fu questo che lo rese ciò che era. Di fronte a tutto quel che è dogma identitario (che Durkheim identificava con la dimensione del sacro) la genialità e l’idiozia sono del tutto equivalenti perché identicamente impotenti. Egli, piuttosto, visse una vita randagia e solitaria, visse fuori da ogni gruppo sociale e ciò gli consentì di osservare il mondo e l’umanità dall’esterno. E a comprenderli per ciò che sono. Gli servì a questo e a nient’altro. Perché il romanzo in cui visse è un’opera senza alcuna immagine di futuro.
Ed è allo stesso tempo un’immagine storicamente esatta, fino al limite del documentarismo, del mondo reale. Ricorro abitualmente a questo proposito alla metafora della nave che affonda. Una grande nave dunque salpa verso il mare aperto; tutto inizialmente sembra andar bene e la nave avanza sicura mentre a bordo tutti vivono le loro giornate serenamente, spensierati e allegri. Poi qualcosa accade e la nave comincia lentamente, lentamente ad affondare. Ma nessuno ci fa caso, tutti continuano a vivere le loro giornate come prima, quando tutto andava bene, esattamente come prima. Quasi tutti. Un piccolo gruppetto di passeggeri si accorge che qualcosa non va, tenta di fare qualcosa, di renderne consapevoli gli altri. Ma essi si accorgono ben presto che non c’è modo. Intorno a loro continuano a vedere facce serene, spensierate, allegre. E la nave continua ad affondare. Alla fine rinunciano e calano in mare le scialuppe, per loro soltanto. Ed ecco questo piccolo drappello di scialuppe che si allontana veloce e sicuro dalla nave ormai condannata, ma verso dove? Incredibilmente le scialuppe continuano a seguire la rotta della nave, non tornano verso la terraferma ma procedono verso il mare aperto. Ecco, se c’è qualcosa che toglie spazio alla speranza oggi non è tanto quell’enorme nave che affonda quanto quel drappello di scialuppe i cui equipaggi, convinti che lo sbaglio sia stato soltanto quello di navigare su una grande motonave, remano uniti e solidali dirigendosi anch’essi verso il mare aperto convinti di andare verso la salvezza della terraferma, verso un mondo migliore. Essi cioè continuano a fare la stessa cosa di coloro che hanno condotto la nave al naufragio, convinti che basti farla in maniera diversa. A dire il vero qualcuno, su una delle scialuppe, ha dei dubbi, prende bussola, sestante, carte nautiche e si accorge dell’errore. Tenta allora di fare qualcosa, di renderne consapevoli gli altri. Ma si accorge ben presto che non c’è modo. Intorno a lui tutti continuano a remare uniti e solidali… nella direzione sbagliata. Questo qualcuno potrebbe ben chiamarsi Zenon Ligre.
Ecco dunque perché mentre completavo Un pianeta a tavola e leggevo L’opera al nero sentii il suo protagonista come chi percorre una strada parallela alla mia. Non consideratemi però presuntuoso perché ci vuol ben altra forza che la mia per scrivere le cose che lui scrisse in un’epoca in cui si rischiava il rogo. Io non rischio tanto, non perché io viva in un’epoca più mite, solo più efficiente, e che sa bene come “disinnescare” gli eretici senza sprecare troppe energie (e troppa legna da ardere). Il mio rogo dunque sarà soltanto il limbo di un grigio oblio. Venga pure, ormai sono preparato.
Filippo Schillaci