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Un contributo di Mario SASSI (*)
Repubblica il 21/2 ha pubblicato un’intervista a Jane Fonda in cui la famosa attrice ed attivista ha rivelato: “Ho smesso di comprare vestiti… Non voglio più essere vittima di un consumismo esagerato. Spero di diventare un modello per i giovani. Ho eliminato la plastica, guido un’auto elettrica e da anni uso pannelli fotovoltaici … L’attivismo mi da speranza. Di recente ho sofferto di depressione, sentivo di non fare abbastanza. Ora capisco di poter fare la differenza. Mi sento più forte, ottimista. Il futuro del pianeta è a rischio. Non c’è altro che importi».
Cosa ha di importante questo gesto, che a tanti sembra innocuo? Io ci vedo il ruolo sia sociale che personale della rinuncia, termine molto complesso e dai tanti significati ma che, se ben compreso e praticato, può essere la chiave di volta sia per la salvaguardia del pianeta terra (sperando che non sia troppo tardi) che, in ogni caso, per la nostra felicità personale.
In primo luogo oggi rinunciare al consumismo ha un alto valore sociale ed ambientale, perchè vuol dire sottrarsi (anche solo individualmente) al meccanismo che più di ogni altro condiziona la nostra economia e la nostra società, “fa girare la ruota” del business, della produzione, della moda, che sta avvelenando e distruggendo il pianeta. Ridurre la propria impronta ecologica è l’azione fondamentale che ognuno può (e dovrebbe…) fare per il pianeta e per il futuro – e rinunciare ai tanti acquisti inutili o “posizionali” o “di moda” è il primo passo.
Ma la rinuncia ha anche un grande valore personale, perchè è uno dei principali strumenti che ci può superare la sofferenza. La rinuncia, correttamente praticata e non imposta dall’esterno, è il mezzo per superare sia l’attaccamento alle cose piacevoli che l’avversione a quelle spiacevoli, entrambe fonte di infelicità perchè comunque transitorie ed impermanenti. Attaccamento ed avversione sballottano la nostra mente in continuazione, come una scimmia che passa le giornate saltando da un ramo all’altro. Non dobbiamo reprimere questi istinti, ma semplicemente osservarli e prenderne una (anche minima) distanza, non identificarci con loro, riderne o piangerne anche, ma come se si fosse al cinema. In questo modo la rinuncia sarà poi naturale e non solo non dolorosa, ma anzi assolutamente piacevole. Per approfondire il vero significato di rinuncia, clicca qui, qui e qui.
Cosa possiamo fare per “rinunciare” all’attaccamento? Una prima buona pratica è sostituire la preoccupazione per noi stessi con quella per gli altri, prendendosi a cuore gli altri prima che noi stessi ; una seconda è la meditazione sull’equanimità, eliminando il nostro abituale attaccamento per gli amici e avversione per i nemici e sviluppando compassione per tutti; un terzo metodo si chiama “dare e prendere”, in cui offriamo mentalmente agli altri tutti i nostri beni materiali, buone qualità e meriti, e prendiamo su di noi tutti i loro problemi, dolori e malattie. Tutte queste tecniche possono aiutare a superare quell’egocentrismo che mi fa bramare sempre e solo il meglio per me – ma che in realtà crea attaccamento ed infelicità.
Per tornare a Jane Fonda, sono sicuro che sarà molto più felice e serena con il suo mitico cappotto rosso, senza doversi preoccupare di comprare ed indossare ogni giorno un cappotto diverso. E farà anche bene all’ambiente ed a tutti noi!
(*) Socio del Circolo MDF di Roma e componente del Gruppo Tematico Economia e Decrescita