La pandemia e la crisi delle associazioni. Situazione e possibili sollievi
Una riflessione di Gianfranco di Caro ed Enrichetta Salgaro
Il 2020 è stato percorso da una crisi globale dovuta alla vicenda Covid che, comunque la si pensi, ha dimostrato ulteriormente la vulnerabilità dell’attuale assetto socio/economico spinto oltre i propri limiti fisiologici.
Una delle tante componenti sociali colpite dai blocchi delle attività e il pressoché divieto di riunione, è quella delle associazioni, definita genericamente “terzo settore”. Le limitazioni hanno appesantito enormemente situazioni già rese precarie, anche da una scarsa attenzione delle amministrazioni per dinamiche considerate “non produttive”.
Diverse le riflessioni mi si affacciano alla mente, per esperienze vissute anche in prima persona.
La situazione
Oltre a quelle più istituzionali e strutturate per certe attività di ampio respiro e dimensione ( tipo soccorso sanitario e tecnico, ambientaliste ecc.), esiste una miriade di piccole associazioni, che si muovono quasi invisibili nelle pieghe delle nostre città, agendo su un enorme ventaglio di tematiche: promozione sociale, cultura, assistenza a chi si trova ai margini o fuori della società, gestione civica attiva di beni comuni locali, cura ambientale o dello spirito, sport amatoriali ecc.
Solo nella mia città, Verona, per calcolo empirico dato che nessuno ne ha mai fatto un serio censimento, ne esistono centinaia.
Questa miriade di realtà sono nodi essenziali di una trama che mantiene viva una città intesa come “comunità”, al di fuori delle logiche mercantili. L’associazionismo rappresenta inoltre uno strumento per dare effettiva sostanza a quella parola inflazionata nella narrazione, che è “resilienza” (l’altra è sostenibilità), per alimentare da parte della collettività la capacità di reazione positiva e spirito di adattamento alle potenziali crisi che si prospettano.
Molte di queste nonostante le difficoltà si sono attivate nella crisi per fare mutualità, portare assistenza in quei contesti più fragili, maggiormente esposti o conseguenti alla situazione. L’hanno fatto recuperando cibo nei mercati e consegnandolo, mantenendo aperti sportelli di assistenza e a tutela dei diritti dei più deboli; e ancora, sostenendo il morale collettivo dal punto di vista culturale e spirituale, reinventandosi con fantasiose modalità di “trasmissione”, con spettacoli teatrali, letterari e musicali.
Tutto questo praticamente senza chiedere nulla, donando tempo di vita e passione, magari compensando anche le permanenti criticità degli enti locali nel gestire certe dinamiche di politica sociale, perché spesso più impegnati a “sparare” le proprie città in una illusoria illimitata espansione urbanistica ed economica che sensibili al reale “benessere” dei propri cittadini.
Realtà associative prive in molti casi di una sede adeguata, oppure con contratti privatistici di locazione (capestro) con gli stessi comuni, continuano a sostenere i costi fissi per tasse e utenze, queste ultime poi spesso applicate a tariffa “non residenziale” e perciò più elevata.
Per assurdo le re-azioni civiche alla crisi, portate avanti dall’associazionismo hanno pure amplificato le loro difficoltà.
Moltissime sono state escluse dai cosiddetti ristori, perché magari non rientrano in quei requisiti (peraltro non obbligatori) di appartenenza formale al terzo settore, “santificati” dall’iscrizione negli appositi registri.
Chiariamo: per arrivare a questi requisiti, ci si deve dotare di strutture e adempiere a incombenze più vicine ad una concezione di società industriale, che a quella umanistica e sociale. Per esperienza diretta, si devono fare dei salti quantici per non perdere la propria matrice, motore di principi e valori. Perché di fatto, e per l’ennesima volta, la cosiddetta riforma del terzo settore è espressione di quella visione produttivistica/aziendale che permea la nostra civiltà contemporanea. Tutto deve essere principalmente parametrizzato e dimensionato in relazione ad una valutazione e ampiezza economica.
Ad amplificare le difficoltà è anche una diffusa incapacità di creare reti associative efficaci e robuste , una estesa inerzia civica dei cittadini e una dissonanza cognitiva delle amministrazioni che non riescono pienamente a valutare le conseguenze (dai risvolti inimmaginabili), della perdita di questi “ammortizzatori civici”.
Insomma, ad oggi la maggior parte delle associazioni è in profonda crisi, molte agonizzanti se non già morte e sepolte.
Possibili percorsi di sostegno e sollievo
E quindi? Solo ristori economici?
Non nego in questa situazione emergenziale la validità anche di misure economiche, come uno dei possibili strumenti, ma non è solo questione di dare denaro o ridurre/sospendere/annullare imposte per servizi (ora magari inutilizzati) come la Tari.
Potrebbe aiutare evitare azioni di estromissione sociale (sempre più applicate o legittimate dalle amministrazioni). Cito alcuni esempi: lo sgombero dell’Ex lavanderia a Roma in piena crisi Covid, o quella subita in precedenza dal circolo MDF di Padova assieme ad altre associazioni della CLAC; lo sfratto, senza di fatto alternative, di una realtà (più che ventennale) culturale e artistica di respiro internazionale, come INTERZONA a Verona.
Consentire una prospettiva di futuro, favorendo tutte quelle dinamiche che possono facilitare il percorso di attivismo associativo, quale il ricorso al principio di sussidiarietà, previsto dall’artico 118 della Costituzione, possibile volano per una “cittadinanza attiva”, che consentirebbe di mettere a disposizione, secondo questo criterio costituzionale, contenitori, beni e spazi che non sono “proprietà” del comune ma disponibilità della comunità.
Tale pratica è però fastidiosa per la politica partitica locale, abituata a relegare i cittadini a semplici juke-box elettorali, da far suonare giusto ogni tot di anni per farsi dare una presunta delega in bianco ad amministrare, “disattivando” quindi nei fatti la partecipazione attiva alla politica territoriale.
Previsione tra le municipalizzate erogatrici di servizi energetici, di contrattualistica dedicata alle associazioni, agevolandole dal punto tariffario o prevedendo quanto meno una quota dignitosa di consumi in esenzione.
Individuare e rendere disponibili nell’immediato spazi idonei a garantire le misure attuali per la sicurezza, in cui le associazioni possano svolgere un minimo di attività anche per auto finanziamento.
Aprire tra associazioni e amministrazioni tavoli di lavoro permanenti, univoci e facilitati, per confrontarsi, cogliere le criticità e valutare percorsi condivisi. Si eviterebbe così quella pratica odiosissima dello scaricabarile e di rimbalzo “da questo a quel funzionario”, che per l’attuale situazione è come pretendere che una persona in coma scenda dal letto e vada a cercarsi un medico o infermiere.
Tutta una serie di strumenti che tra l’altro non prevedono nemmeno enormi impegni economici, solo buon senso e volontà e che potrebbero aprire finalmente quella prospettiva di futuro meno precario prima auspicata.
Son solo…..utopie, sogni o inutili slogan??
Mah, nella decrescita pensiamo e facciamo comunità partecipata di abitudine, per noi è una “normalità” viva e funzionante, dunque perché non “suggerire” questi principi alle amministrazioni locali, che invece funzionano, (eufemisticamente parlando) non proprio….benissimo?