Riflessioni dal Cile / La Patagonia e la Terra del Fuoco

da | 21 Mar 2022

di Karl Krahmer, membro del Direttivo MDF e dottorando al DIST, dipartimento di studi del territorio di Università e Politecnico di Torino

 

Sono attualmente in Cile per il mio dottorato. Sto indagando la geografia delle relazioni commerciali globali della frutta prodotta lì per tutto il mondo. La mia domanda centrale è che cosa se ne può imparare per sviluppare strategie di decrescita a molteplici scale (e non solo a quella locale). Vi racconto qui, in maniera informale, spontanea e poco metodica, alcune mie osservazioni, più o meno legate alla mia ricerca che spero possano interessare a chi legge questo sito.

La Patagonia e la Terra del Fuoco (la grande isola a sud dello Stretto di Magellano) sono, senza dubbio, le regioni più miticizzate di Cile e Argentina. E infatti solo in Patagonia in questi mesi ho incontrato un numero rilevante di turisti stranieri. Ci sono stato un paio di settimane in vacanza a cavallo tra natale e capodanno. Da cosa sono attratti i turisti (me incluso)? Certamente dai paesaggi straordinari, da una natura presuntamente vergine, dall’atmosfera di “frontiera”, dall’idea di stare alla “fine del mondo”. Tutte idee tanto affascinanti quanto problematiche. Voglio scrivere qui brevemente della storia umana dell’estremo Sud del continente americano. Ovviamente non è un territorio vergine e non lo fu neanche quando arrivarono i primi europei – prima alcuni isolati, come Magellano lungo la prima circumnavigazione del mondo – e poi in numeri più grandi, nell‘800, a colonizzare queste terre. La Patagonia e la Terra del Fuoco erano paesaggi abitati già da migliaia di anni.

Ci abitavano cinque popoli indigeni nomadi, tra cui quattro nel territorio che oggi fa parte del Cile.  Fino all’800 la presenza degli europei si limitava ad alcune visite isolate, per attraversare lo Stretto di Magellano (è impressionante quanti toponimi della regione sono intitolazioni a naveganti europei) o a viaggi di ricerca, come quello di Darwin. Alcuni tentativi di insediamento finiscono tragicamente. Solo nel XIX secolo ha inizio la vera colonizzazione. Questa avviene a seguito dell’indipendenza cilena dalla Spagna all’inizio del secolo. Il nuovo paese si dà il compito di definirsi come nazione e di svilupparsi. Per questo vuole consolidare e in parte espandere i suoi confini, in stretta connessione con il suo sviluppo economico. Verso nord questo avviene attraverso la guerra del Pacifico contro Perù e Bolivia (che così perde il suo accesso al mare). Guerra che il Cile vince e attraverso la quale si appropria della maggior parte delle riserve di salnitro, all’epoca il bene di esportazione più importante del paese.

Verso sud l’espansione nazionale avviene su due fronti: da un lato nei territori dei Mapuche nel centro-sud cileno, popolo che fino a quel momento era riuscito a fermare la colonizzazione spagnola sulla linea del fiume del Bio-Bio. Perde invece il confronto con la conquista cilena propulsa attraverso la forza militare e l’insediamento di coloni europei (vedi anche:  https://decrescitafelice.it/2022/02/cile_1/ e https://decrescitafelice.it/2022/02/cile_2/).

Nell’estremo Sud, l’ambizione cilena è simile: definire e consolidare un confine che si considera naturale, garantire il controllo dello Stretto di Magellano (molto più importante che oggi: ancora non c’era il Canale di Panama) e avviare, in seguito, un processo di colonizzazione economica. Come primo passo si inviano alcune piccole navi da guerra, poi si fonda la città di Punta Arenas, ancora oggi capoluogo e maggiore città della regione (con più di 100mila abitanti). In parallelo si invitano i coloni europei. Questi arrivano da svariati paesi. Tedeschi, russi, italiani e molti croati (da questa storia di immigrazione croata tra l’altro viene il nuovo presidente cileno Gabriel Boric). La base economica di questa colonizzazione diventa l’allevamento di pecore per la produzione di lana che viene avviato con facilità nelle ampie pianure della steppa patagonica e fueguina. Lo stato cileno vende enormi estensioni di terra ai coloni che diventano giganteschi latifondi su cui pascolano le pecore. Un perfetto caso di “commodity frontier” (Jason W. Moore). Questo boom ha inizio negli anni ‘70  dell’800.

Però, come dicevo, queste non erano terre disabitate. Gli spazi della Terra del Fuoco che furono destinate alla produzione di lana erano abitate dal popolo degli Selk’nam o Ona. Era un popolo che viveva principalmente della caccia del guanako, un animale parente del lama che ancora oggi pascola in grandi numeri nella steppa. Con l’arrivo dell’allevamento delle pecore succedono tre cose: le terre degli Selk’nam si vedono attraversate dalle recinzioni dei pascoli. I numeri degli guanako diminuiscono per la massiccia presenza delle pecore. Soprattutto però, per gli Selk’nam la pecora è uno strano guanako che non scappa e diventa un ideale nuovo animale da caccia. Da qui nasce un conflitto coi proprietari terreni che sfocia in un crudele genocidio. Un imprenditore capitalista dell’800 venuto in Patagonia per farsi ricco oltre a essere un colto europeo non poteva ovviamente tollerare che un gruppo di ignoranti e selvaggi – poco più che animali – gli ammazzasse le pecore, non rispettando il minimo della civiltà: la proprietà privata. Più o meno questo dev’essere stato il pensiero dei latifondisti quando cominciarono a promettere soldi a chi avrebbe ucciso i Selk’nam. Molti civilizzati migranti o discendenti di migranti europei formano gruppi di cacciatori di uomini. Per dimostrare l’effettiva uccisione dei Selk’nam dovevano portare pezzi dei loro corpi come prova – non sia mai che a qualcuno venissero degli scrupoli. Sulla base di questi poi ricevevano il loro premio di denaro.

Di questa crudele storia racconta il bellissimo e tristissimo film Blanco en Blanco del regista spagnolo-cileno Theo Curt. Un fotografo venuto in Patagonia per fare le foto di un matrimonio di un latifondista non viene pagato. Per poter raccogliere soldi per poter andare via da questa terra, il suo più grand desiderio, si trova costretto (se effettivamente non ha altra scelta è la domanda che attraversa il film) a documentare il genocidio.

Come si poteva arrivare a simile crudeltà? In un certo senso è una violenza caratteristica dell’espansione del capitalismo attraverso la colonizzazione del mondo. La possibilità di questa violenza è basata sulla disumanizzazione delle vittime. Il non considerarli umani o umani in qualche modo inferiori o selvaggi. Razzismo in una parola.

Questo razzismo ovviamente ha accompagnato tutto il processo di colonizzazione del mondo da parte dell’Europa. La vendita di donne e uomini africane alle piantagioni nortamericane ne è solo il caso meglio conosciuto. Nel caso del Sud del Sudamerica, il razzismo si può per esempio leggere nel diario dello stesso Charles Darwin in cui racconta il viaggio della Beagle. Su questa nave viaggiavano insieme a Darwin alcuni indigeni delle isole a sud della Terra del Fuoco che erano stati portati in Europa come “curiosità” e oggetti di osservazioni scientifica e con il proposito di “civilizzarli”. Con il viaggio a cui partecipava anche Darwin dovevano tornare ai loro popoli, dai quali erano stati deportati. Si chiamavano Orundellico, chiamato dagli inglesi “Jemmy Button” perché comprato in cambio di un bottone, e gli altri, coi nomi datigli dagli inglesi: York Minster, Fuegia Basket e Boat Memory. Darwin li descrive con umanità, però comunque li denomina selvaggi. Scrisse Darwin nel suo diario: “Com’è totale la differenza tra il selvaggio e l’uomo civilizzato! Essa è più grande di quella che esiste fra un animale selvatico e uno domestico. Io credo che se si frugasse tutto il mondo non si troverebbe un più basso grado di umanità.”

Questo a dimostrazione del razzismo che era presente anche tra persone intelligenti e che avrebbero potuto saperlo meglio. Come si esprime qui il razzismo? Attraverso l’atteggiamento di pensare a un altro popolo come in qualche modo “indietro” sul cammino della storia, come se ce ne fosse uno per tutti, e quindi di valore minore. O, nei migliori dei casi, selvaggio “da educare”. Un atteggiamento quindi strettamente intrecciato con l’idea moderna del progresso e della sua universalità che è anche base necessaria della religione della crescita economica. Un posizionamento simile l’ho trovato – e questo mi ha colpito come torinese (adottato) – nel lavoro dei Salesiani, che erano nell’800 i missionari (ed esploratori) più attivi nella regione. Molte località nella regione sono nominate secondo padri salesiani, come il Parque Nacional Alberto de Agostini (De Agostini era un padre salesiano, missionario ed esploratore, della stessa famiglia dei cartografi de Agostini). A Punta Arenas c’è una grande struttura dei salesiani, simile alla casa madre di Torino, in cui c’è uno dei prinicpali musei della regione che racconta anche la storia dei popoli originari. Museo che ancora oggi solo superficialmente critica il ruolo che gli Salesiani ebbero all’epoca nella relazione con gli indigeni. Da un lato si impegnarono per la vita di questi popoli – nel senso che si opposero alle uccisioni da parte dei colonizzatori. Dall’altro lato però, questa vita doveva svolgersi secondo i canoni della cristianità e della cultura europea. Dai salesiani vennero invitati (come, il museo non lo racconta, immagino in buona parte come unica alternativa possibile in un momento storico in cui le loro terre vennero occupate dalle attività economiche dei colonizzatori) a trasferirsi in delle comunità gestite dove li insegnavano tecniche artigiane europee come nuovo modo di sostentarsi… Dovevano anche cambiare come si vestivano. I vestiti europei però erano molto meno adatti al clima (freddo ma soprattutto molto umido). Prima si vestivano con pelli di animali ma stando semi nudi; i vestiti europei invece si bagnavano e rimanevano umidi. Molti si ammalarono e morirono. Credo che non servono molti commentari per evidenziare il disprezzo per le culture tradizionali di questi popoli, insito in queste pratiche. Culture che erano riuscite ad adattarsi perfettamente e con grande arte alla vita in un territorio per noi europei assai ostile. Io sentì una forte ammirazione per la popolazione canoera dei Yamana che abitavano i fiordi dell’estremo Sud del continente americano quando attraversavo il loro territorio in nave e – seppur ammirandone la bellezza – ne soffrivo il vento freddo e quello che per me era desolazione. La mia sensazione era che io lì, con i loro mezzi, non sarei sopravissuto neanche una settimana.

Ma non avevano solo un modo di abitare questi territori, ci hanno anche lasciato (e le comunità ancora vive continuano a produrne) delle opere e pratiche bellisime di arte, artigianato, cultura. Sia i Yamana che gli Selk’nam avevano una grande arte di dipingersi i corpi. Le pitture corporali molto evocative dei Selk’nam oggi hanno raggiunto una certa popolarità in Cile, rappresentate in molti oggetti artigianali in vendita che fanno riferimento soprattutto alla complessa cerimonia al mondo adulto di questo popolo, chiamata “Hain”.

Lo si potrebbe criticare come appropriazione culturale ma dopo questi mesi in Cile mi piace piuttosto leggerlo come parte di un processo di presa di coscienza della storia complessa del paese.

Murales ispirato alle pitture corporali dei Selknam. Porvenir, Tierra del Fuego. Foto di Karl Krähmer, gennaio 2022

Ed infatti le opere del Museo di Arte Precolombino di Santiago sono straordinarie, mentre dell’arte europeo di quei tempi in Cile sono arrivate solo le briciole. Anche solo questo, credo, è un’ottima ragione, perché in Cile oggi ci si renda conto del grande valore di quelle tradizioni e di quelle opere.

Ma rimangono aperte molte questioni sul riconoscimento culturale ma anche economico dei popoli originari del Cile. Infatti il ripensamento dell’identità cilena è provvisoriamente culminato nell’attuale processo costituente, in cui i popoli originari sono ampiamente rappresentati. E il nuovo presidente, Gabriel Boric, ieri, 11 marzo, nel suo discorso di insediamento si è rivolto non al popolo ma ai popoli del Cile.