Alluvione nelle Marche: la ritualizzazione delle emergenze

da | 23 Set 2022

Un articolo di Gianfranco Di Caro, MDF Verona

Ennesimo evento meteorologico “acuto” sul nostro territorio nazionale, nuovamente con vittime (purtroppo).

Al solito si è avviata la consueta narrazione di queste situazioni, ahimè sempre più ricorrenti; elenco solo alcuni di questi rituali verbali:

  • Evento imprevedibile

  • Un disastro “annunciato” (segue lista da “senno di poi”)

  • Nessuno ci ha avvisati

  • Cambiamenti climatici (si, no, forse, ma cosa c’entrano)

  • Dissesto idrogeologico (colpa di chi?)

  • Fare “prevenzione”

  • Gli operatori della Protezione Civile, VV.FF. inclusi, descritti come “Angeli” (del e nel fango)

  • La magistratura farà il suo corso per individuare eventuali responsabilità (ennesimo fascicolo aperto nel…nulla)

  • Non vi abbandoneremo, le risorse ci sono (dichiarazioni appannaggio di “alte” cariche dello stato)

  • Hanno perso tutto.

  • Racconto tristissimo di qualche vittima riportata dai media (magari con sottofondo musicale struggente), oppure di qualche atto di “eroismo”.

E’ una liturgia comunicativa oramai radicata nel nostro belpaese, che accompagna per alcuni giorni fino all’oblio del dimenticatoio. Ovviamente non per chi ha subito il trauma degli eventi.

L’impianto narrativo dell’emergenza sembra poi affascinare sempre più una politica “parlata”, ma priva della sostanza di una visione sistemica e a lungo termine. Meglio saltare da un’emergenza all’altra, di qualsiasi genere, con la retorica di salvatori, magari con promesse di progetti faraonici ad effetto, per sollevarci dalle pene emergenziali.

Cosa c’entra la Decrescita Felice con tutto questo?

Francamente mi vengono in mente talmente tanti collegamenti che non basterebbe lo spazio di un libro. Proverò a raccontarne solo alcuni che mi danno sempre da pensare al ripresentarsi di questi eventi.

Tre vittime, nel medesimo condominio, tentavano di mettere in salvo…l’auto in garage. Questo succede quasi sempre. Ho visto, in passato persone scendere in strada per tentare di recuperare il motorino mentre l’acqua saliva rapidamente: dare la precedenza al salvataggio di beni materiali, seppure economicamente rilevanti, a scapito della salvaguardia della propria vita è per me sempre disarmante e frustrante; osservare persone con l’acqua alla cintola aggirarsi in una piazza allagata con il telefonino in mano per fare riprese da pubblicare sui social, lo è altrettanto.

Di fronte ad eventi climatici nuovi per dinamiche e dimensioni, di cui riconosciamo ancora poco o nulla, in barba ad ogni buon senso, con l’auto ci si infila nei sottopassi allagati, si transita nei pressi di corsi d’acqua in piena, o si va incontro (magari riprendendolo) ad un tornado, entrando in una “modalità routine” (casa, lavoro, famiglia ecc.). Comportamenti che evidenziano un disaccoppiamento cognitivo con il contesto in cui si vive e dell’evoluzione dei rischi che potrebbero interessarlo.

L’ambiente circostante è corpo estraneo al nostro vivere, fatto di riti quotidiani, ripetitivi e irrinunciabili.

Un disaccoppiamento alimentato anche dalla convinzione che quello che ci accade sia sempre responsabilità di “altri”, e non derivi piuttosto anche da nostre scelte e stili di vita.

Ci scuotiamo (troppo tardi) solo quando la realtà ci colpisce direttamente, magari sotto forma di acqua e fango o terremoti, che hanno la brutta abitudine di non bussare o avvisare, gravi malattie, oppure quando perdiamo improvvisamente il lavoro salariato, magari annunciato da una asettica e-mail.

Siamo sprovvisti di una forma mentale e di strumenti che ci permettano di affrontare una consapevole uscita, lenta o rapida che sia, dalla zona considerata di comfort e che riteniamo dovuta e immutabile.

Dal secondo dopoguerra, dalle “messianiche” promesse di crescita, allora necessaria per l’azzeramento bellico, ci ritroviamo oggi in una situazione globale di degrado, ambientale, climatico e sociale che mette in forse le basi stesse della vita.

Nella mia esistenza, oramai non più breve, ho vissuto diverse esperienze, sia come operatore emergenziale, che come “vittima”.

In base anche a queste, sono arrivato a ritenere che il percorso indispensabile da intraprendere non sia quello di espandere ulteriormente la complessità in cui viviamo, ma tentare di riportare il contesto entro limiti gestibili, anche per facilitare un processo di “cura”, in armonia con l’ambiente.

Promuovere l’idea che la presa di coscienza della realtà può essere anche “scomoda”, ma necessaria per imboccare percorsi per orizzonti nuovi, anche per aumentare le nostre capacità di affrontare, come singoli e comunità eventi avversi, anche climatici, sempre più presenti.

Come collettività umana dobbiamo metterci seriamente in “ascolto” e “osservazione” dell’ambiente che ci circonda. E tenerne memoria.

Anche questa è Decrescita .