Uno dei problemi da affrontare dopo l’emergenza Covid sarà la gestione del debito pubblico italiano, nel momento in cui il rapporto debito/Pil raggiungerà un valore molto alto: sia per l’aumento del numeratore dovuto alla spesa in deficit per finanziare gli incentivi economici richiesti dalla pandemia Covid-19, sia per la diminuzione del denominatore dovuto alla contrazione economica, anch’essa dovuta al Covid-19.
di Luigi Giorgio, 12 maggio 2020 – luigi.giorgio.lg@gmail.com
Nel momento in cui è risultato chiaro che l’emergenza Covid richiedeva un sforzo enorme di risorse per fronteggiare la crisi economica e sociale, il 25 marzo l’ex presidente della Bce Mario Draghi in un articolo sul Financial Times, dal titolo «Stiamo affrontando una guerra contro il coronavirus e dobbiamo mobilitarci di conseguenza», ha appoggiato la necessità di una linea finanziaria espansiva per affrontare i gravi contraccolpi economici provocati dall’emergenza Covid-19. In poche parole ha affermato che:
- siamo in guerra e come in ogni guerra servono misure straordinarie;
- queste misure devono essere a carico dello Stato, che deve spendere per sostenere il reddito dei lavoratori e la possibilità di ripresa delle aziende;
- per fare questo, lo Stato non si deve assolutamente preoccupare dell’innalzamento del debito pubblico;
- il costo dell’esitazione potrebbe essere fatale.
A fine marzo un gruppo di 9 Paesi Ue (Italia, Spagna, Portogallo, Grecia, Francia, Irlanda, Belgio, Lussemburgo e Slovacchia) chiede all’Unione di fare un salto culturale con la condivisione del debito e quindi dei rischi, attraverso il lancio di titoli obbligazionari europei (i cosiddetti eurobond o coronabond) per permettere di finanziare le misure straordinarie.
Ma la Germania e i paesi del Nord (Olanda, Austria, Finlandia) si oppongono alla richiesta, secondo loro irricevibile dopo aver già concesso la sospensione del Patto di Stabilità e di Crescita, chiesto dalla Commissione Ue e accolto dall’Ecofin, per permettere per tutta la durata della crisi di mettere da parte il tetto del 3% al deficit pubblico e quello del 60% al debito pubblico, e la sospensione delle regole sulla concorrenza riguardo gli aiuti di Stato.
I tedeschi propongono di usare il Mes, il Meccanismo europeo di Stabilità noto anche come Fondo salva Stati, eliminando i vincoli di un programma di aggiustamento macroeconomico e di un’analisi della sostenibilità del debito pubblico normalmente obbligatori per chi lo richiede.
L’8 maggio i ministri delle Finanze dell’area euro arrivano a un’intesa sulle linee di credito: interesse dello 0,1% e restituzione in 10 anni per importi fino al 2% del PIL dei rispettivi membri alla fine del 2019 (per l’Italia 36 miliardi). Notare che con una emissione di Bot a 10 anni l’interesse attuale per l’Italia sarebbe dell’ 1,8%.
Unica condizione è che le risorse vengano destinate alle spese sanitarie dirette e indirette legate al Covid-19.
In attesa di un accordo sulla politica fiscale, arriva il “bazooka” della politica monetaria con il PEPP (Pandemic Emergency Purchase Programme): la Banca centrale europea, guidata dalla francese Christine Lagarde, oltre ad offrire liquidità a condizioni estremamente vantaggiose per le banche per spingere a fare credito a imprese e famiglie, rafforza il programma di acquisti di titoli pubblici e privati sul mercato lasciato in eredità dal predecessore Mario Draghi. Dopo aver aumentato il programma di acquisti di 120 miliardi, la Bce mobilita altri 750 miliardi.
Mercoledì 26 marzo fa cadere il limite del 33% agli acquisti delle emissioni di ogni Paese, per rendere più efficace la sua azione.
Il 17 aprile il Parlamento Ue dà il suo appoggio a un grande piano per la ripresa che contempla tra gli strumenti i Recovery bond finanziati attraverso un bilancio Ue ampliato, esorta gli Stati membri all’uso del Mes ma dice «no» ai coronabond. Inoltre esclude la mutualizzazione del debito esistente però non esclude la mutualizzazione del debito per investimenti in futuro tramite un Recovery Fund.
Il Recovery fund, presumibilmente alimentato inizialmente da un minimo di risorse di tutti gli Stati membri, si baserebbe sull’emissione di nuovi titoli di debito, i Recovery bond, la cui raccolta sarebbe poi girata attraverso trasferimenti ai paesi in difficoltà.
In altri termini, l’idea alla base di questo strumento è che gli Stati meno indebitati non siano costretti a farsi carico anche del debito pregresso, più consistente, dei paesi del sud.
Per il momento, non sono state definite né le modalità di finanziamento né il suo ammontare.
2. GLI INTERVENTI PROGRAMMATI IN ITALIA
Il 28 aprile, in un’intervista a Il Sole 24 Ore, il ministro dello Sviluppo economico Stefano Patuanelli ha detto che «tra il precedente decreto e quello in arrivo siamo già a un extra deficit di 80 miliardi».
I due decreti a cui fa riferimento Patuanelli sono il “Cura Italia”, convertito definitivamente in legge dal Parlamento il 24 aprile, mentre con «quello in arrivo» indica il cosiddetto “decreto Aprile”, la cui approvazione da parte del Consiglio dei ministri è stata annunciata per il prossimo 30 aprile, slittata poi a maggio e alla data di questo documento non ancora ufficializzato nei dettagli.
Rispetto al 2019, si stima che nel 2020 il Pil italiano calerà di oltre 126 miliardi di euro, una flessione «doppia rispetto alla crisi del 2008-2009».
A causa della recessione, le entrate caleranno complessivamente di quasi 49 miliardi di euro (tre volte il calo registrato nel 2009), mentre l’indebitamento netto salirà a circa 173 miliardi di euro (10,4 per cento in rapporto al Pil), tenendo conto anche dei provvedimenti che il governo si appresta a varare (come il “decreto Aprile”) e degli effetti delle misure approvate l’anno scorso.
Nel 2021, si stima che il deficit si assesterà a un 5,7 per cento rispetto al Pil (oltre 101 miliardi di euro), mentre il debito pubblico salirà nel 2020 al 155,7 per cento rispetto al Pil e al 152,7 per cento a fine 2021.
Il 5 maggio il ministro dell’economia Roberto Gualtieri ha riferito alle commissioni Bilancio e Finanze del Senato sugli aiuti finanziari provenienti dall’Europa.
Ha dichiarato che «L’Italia potrebbe avvalersi del Sure per circa 20 miliardi per gli ammortizzatori sociali», e la linea di credito della Bei «potrebbe produrre circa 40 miliardi di finanziamenti per l’Italia».
A tali cifre va aggiunto l’eventuale uso del Mes per circa 36 miliardi e «poi il Recovery Fund; dipenderà dalle dimensioni, ma sono fiducioso che almeno un altro centinaio di miliardi di risorse potrebbero essere utilizzate per il nostro Paese».
Per quanto riguarda il MES sia il M5S al governo, che Lega e Fratelli d’Italia all’opposizione, sono contrari ad attingere i 36 miliardi disponibili per l’Italia. Gli altri tre partiti al governo e Forza Italia sono favorevoli.
Ci sarà un passaggio in parlamento per votare la decisione finale.
È impossibile non notare che i partiti contrari sono quelli che hanno sempre detto che l’Europa non ci aiuta abbastanza.
La seguente figura (dal Corriere della Sera) riassume tutte le cifre che riguardano l’Italia e gli aiuti dell’Europa, più i prossimi passi previsti a livello europeo.
3. PERCHÉ IL DEBITO E’ UN PROBLEMA IRRISOLVIBILE PER L’ITALIA
Non voglio fare un trattato sul debito, ma spiegare in modo semplice come si è creato e dove sta il problema.
C’è quindi un minimo di fatti che bisogna conoscere per capire come si sono evolute le cose nel tempo.
Dal 1960 al 1981 il rapporto debito/PIL dell’Italia è sempre stato inferiore al 60%, la soglia che oggi viene usata per indicare un’economia in ottima salute.
Il 12 febbraio 1981 il ministro del tesoro Beniamino Andretta concorda col governatore della Banca d’Italia Carlo Azeglio Ciampi (senza alcun passaggio in parlamento) il divorzio tra Ministero e Banca nella gestione dei titoli di stato: la Banca d’Italia non avrebbe più acquistato i titoli di stato invenduti, che erano emessi dal Ministero ad un tasso d’interesse prefissato, sempre minore del tasso di inflazione.
E’ come se da un giorno all’altro avessi un mutuo che passa da tasso fisso a tasso variabile, cioè da una rata di rimborso di valore costante ad una rata variabile basata su un tasso deciso dalla banca senza il mio accordo.
Il risultato è stato che dal 1981 in poi i tassi di interessi pagati dallo stato sono stati in media del 4,2% superiori a quelli di inflazione e così il rapporto debito/pil è passato dal 55% (1981) al 118% (1994).
Notare che nello stesso periodo la spesa pubblica italiana (senza considerare gli interessi) è passata dal 38,5% del pil (1981) al 40,4% (1994); aumento percentuale in linea con la media degli stati dell’eurozona attuale.
Dal 1980 al 2007 lo stato italiano ha contratto 1.335,54 miliardi di debito, pagando nello stesso periodo 1.740,24 miliardi di interessi.
Notare che dal 1991 al 2019, con la sola eccezione del 2009, ogni hanno l’Italia ha chiuso con un avanzo primario, cioè con il valore delle entrate superiore a quello delle uscite (al netto degli interessi).
La somma accumulata con gli attivi è stata di circa 800 miliardi di euro.
Ritornando all’esempio del mutuo, il problema è che la quota che dopo il 1981 siamo in grado di rimborsare ogni anno (l’avanzo primario) non riesce a coprire tutto il valore degli interessi da pagare, per cui ad ogni rinnovo è necessario rifinanziare il debito precedente (tutto il capitale del prestito) più la parte di interessi che non sono riuscito a rimborsare; quindi ad ogni rinnovo il capitale aumenta.
In queste condizioni quando riuscirò ad estinguere il debito? MAI.
Chi compera il debito è interessato all’estinzione? NO, visto quello che guadagna con gli alti tassi di interesse.
4. LE ALTERNATIVE PER GESTIRE L’AUMENTO DEL DEBITO
L’aumento del deficit italiano nel 2020, pari a circa 80 miliardi, se finanziato con emissioni aggiuntive di titoli di stato da piazzare sul mercato aumenterebbe ulteriormente il rapporto debito/pil (vedi tabella nella pagina precedente).
Per questo motivo un gruppo di 101 economisti ha scritto al governo chiedendo di NON ratificare accordi europei che comportino un significativo aumento del debito, ma di accettare soltanto il finanziamento monetario di una parte rilevante delle spese necessarie da parte della Banca Centrale Europea.
L’appello, firmato anche da Jean-Paul Fitoussi e James K. Galbraith, è apparso su MicroMega il 14 aprile.
Tra l’altro per quanto tempo la BCE potrebbe portare avanti gli acquisti di titoli di stato per tenere sotto controllo lo spread dei titoli italiani?
In aprile, dopo i 6 miliardi della prima settimana e il calo della seconda settimana a 4,1 miliardi di acquisti al giorno, l’ultimo round di stimolo ha segnato il record assoluto di 6,7 miliardi quotidiani per un valore cumulativo di 70,7 miliardi nella settimana
Continuando così, però, i 750 miliardi stanziati per il PEPP non durerebbero fino a fine anno, bensì fino a metà ottobre. Per garantire una schermatura agli spread più sensibili almeno fino a metà dicembre, il ritmo di acquisti dovrebbe scendere a circa 4 miliardi al giorno, cioè un totale di 83 miliardi al mese.
Insomma, meno volume di fuoco per il “bazooka”.
Ma stante la questione delle sofferenze bancarie e del loro potenziale di criticità a causa del lockdown da pandemia, difficilmente paesi come Spagna e Grecia accetteranno che la deviazione della capital key negli acquisti pro quota di debito sovrano da parte della Banche centrali nazionali su mandato dell’Eurotower veda ancora per molto l’Italia a circa il 42% del totale, come accade oggi.
Soprattutto se calcoliamo che Roma partiva dal 17%, sua quota statutaria nel precedente ciclo di Quantitative Easing.
Notare infine che il 5 maggio la Germania ha avvisato la BCE che non permetterà di continuare a finanziare acquisti di titoli dei paesi più deboli; la Corte Costituzionale tedesca ha dato un ultimatum di tre mesi dopo i quali la Bundesbank si ritirerà dai programmi di interventi della BCE se non venisse fornita una spiegazione convincente sulle ragioni della deviazione dal principio di proporzionalità nei suoi acquisti di titoli.
Per gestire il debito l’alternativa più ovvia per l’Italia sarebbe quella di incrementare le entrate per poter avere un maggiore avanzo primario e contrastare così la speculazione.
Da anni si parla di fare emergere l’evasione dell’IVA per avere un maggiore gettito fiscale. Bisognerebbe incrociare le informazioni relative ai movimenti bancari e agli acquisti delle persone con un reddito basso o assente, partendo dalle categorie più a rischio evasione; una cosa non particolarmente complicata con gli strumenti informatici attualmente disponibili.
Abbiamo l’evasione più alta tra tutti i paesi europei, pari al 25,9% dell’iva incassata, cioè 3.147€ per abitante; ma sembra che nessuno riesca ad implementare le soluzioni che funzionano nelle altre nazioni.
Un’altra fonte di evasione, più facile da abbattere se ci fosse la reale volontà politica globale di farlo, è quella dei paradisi fiscali e dei paesi europei che praticano dumping finanziario e accordi per concordare l’aliquota di tassazione direttamente con le grandi multinazionali (Olanda su tutti, poi Irlanda, Lussemburgo e Cipro).
I dati 2016 mostrano che la ricchezza offshore individuale nel mondo ammonta a 7.500 miliardi di euro, di cui 1.500 appartenenti a cittadini europei.
La quota dell’Italia è di 142 miliardi di euro che in termini percentuali vale l’8,1% del Pil nazionale.
A questo valore c’è da aggiungere la quota delle transazioni economiche fatte da aziende che nei paradisi fiscali hanno una sede operativa che gestisce lo scambio tra i paesi di produzione e quelli di commercializzazione per evitare di pagare in entrambi le tasse corrette.
A giugno 2018 il National Bureau of Economic Research degli Stati Uniti ha pubblicato uno studio dal titolo «I profitti scomparsi delle Nazioni».
Lo studio mostra che i profitti esteri di grandi multinazionali trasferiti nel solo 2015 verso questi paradisi fiscali, stimati con cautela, ammontano a una somma sorprendente: 616 miliardi di dollari, su 1.703 miliardi di utili netti di quelle imprese.
Secondo i tre economisti che hanno realizzato lo studio, nel solo 2015 l’Italia ha perso 23 miliardi di dollari di profitti tassabili di multinazionali.
In aggiunta dai paesi europei che praticano dumping finanziario il danno per l’Italia dovuto a tasse non riscosse è di circa 3 miliardi di dollari.
Un’altra opzione interessante è quella di finanziare il debito pubblico utilizzando il risparmio interno italiano, offrendo titoli di lunga durata ai risparmiatori italiani per gestire internamente il bisogno di risorse.
Sul Corriere della Sera del 4 aprile il banchiere Giovanni Bazoli ha parlato di un prestito non forzoso da parte degli italiani (dunque non una tassa patrimoniale) garantito dai beni dello Stato.
Abbiamo un anomalo rapporto tra grande debito pubblico ed enorme ricchezza privata: 4.374 miliardi di attività finanziarie delle famiglie (contro 926 miliardi di passività), 1.840 miliardi di attività finanziarie delle società non finanziarie; contro 2.409 miliardi di debito pubblico.
Per Bazoli basterebbe meno del 7% della ricchezza degli italiani per finanziare un prestito non forzoso di 300 miliardi con titoli di Stato per sostenere la ripresa.
Una proposta simile era stata fatta da Giulio Tremonti il 26 marzo sempre sul Corriere: si può pensare che sia possibile salvarci da soli con un piano basato sull’emissione di titoli pubblici a lunghissima scadenza; titoli con rendimenti moderati, ma sicuri e fissi, garantiti dal patrimonio dello stato con formula «esenti da ogni imposta presente e futura».
Il 5 maggio sul Corriere George Soros ha proposto di emettere BTP irredimibili, cioè con assenza di scadenza e con cedola fissa e garantita a vita, coinvolgendo il più possibile i risparmiatori italiani (che secondo la Banca d’Italia nel 2018 avevano 1.400 miliardi depositati in banca infruttiferi).
Non una novità per l’Italia.
Un titolo irredimibile fu emesso nel 1935 per 42 miliardi di lire (oggi sarebbero stati oltre 4.900 miliardi di euro, considerata l’inflazione) per finanziare la guerra in Etiopia; questo titolo è andato avanti pagando gli interessi fino agli anni ’90, ed è stato completamente rimborsato alla pari per una prima parte nel 1981 e per il restante nel 1998.
Ma il primo fu Giovanni Giolitti, che nel 1906 fissò, mediante il consolidamento e l’irredimibilità del debito, la rendita delle due scadenze previste al 3,5% e al 5%. Da notare che all’epoca la lira godeva di una grande stabilità e quindi la modifica fu accolta con favore.
Altra proposta: il 3 aprile sul Corriere della Sera Ferruccio De Bortoli ed Enrico Giovannini hanno proposto di cambiare il sistema dei sussidi sedimentatosi nei decenni (spesso per l’azione di lobby o a fini elettorali) per orientarli meglio.
La legge di Bilancio 2016 ha introdotto una complessa procedura per la valutazione dei sussidi dannosi (19,7 miliardi l’anno, di cui 17,7 a favore dei carburanti fossili), distinguendoli da quelli favorevoli (15,3 miliardi) e da quelli neutri (8,6 miliardi)
L’Italia si è impegnata, in sede di G7 e G20, a rimuovere tutti i sussidi dannosi per l’ambiente entro il 2025.
Dunque, si tratterebbe di utilizzare la crisi per accelerare questo processo.
Un discorso analogo andrebbe fatto per l’insieme delle altre detrazioni fiscali che ogni anno ammontano a circa 50 miliardi. Molte detrazioni e deduzioni andrebbero confermate o meglio ridefinite alla luce delle misure di sostegno al reddito.
Infine Luca Angelini sul Corriere del 19 aprile ha citato la proposta più innovativa, fatta su Le Monde da Laurence Scialom e Baptiste Bridonneau, del laboratorio di ricerca EconomiX dell’università Paris-Nanterre.
La Banca centrale europea, che in questi anni di Quantitative Easing ha acquistato massicce dosi di titoli di Stato della zona euro, ossia di debito pubblico, potrebbe decidere di cancellare parte di quel debito, per alleggerire il fardello della crisi e dare ossigeno alla ripresa.
L’unica condizione per ottenere la cancellazione sarebbe che «i margini di manovra così riconquistati siano diretti verso una riconversione ecologica delle nostre economie».
Ma quante possibilità ci sono che una proposta del genere passi? Scialom e Bridonneau non sono pessimisti. «La soluzione è politicamente possibile, perché la Bce è l’istituzione in cui è più debole, per un governo, la possibilità di opporre un veto». Mentre per gli eurobond serve l’unanimità, nella Bce basta la maggioranza dei due terzi. È grazie a quello, ricordano i due economisti, che passò il “whatever it takes” di Draghi, nonostante il voto contrario di Jens Weidmann della Bundesbank.
Di fronte alla crisi economica ed ecologica, concludono: «potrebbe essere di nuovo necessario far pendere i rapporti di forza a favore dei partigiani del cambiamento politico che di quelli dello status quo. La Bce salverebbe così, ancora una volta, la zona euro dai suoi demoni».
La Bce potrebbe ad esempio procedere ad una monetizzazione del debito dei paesi europei attraverso acquisti permanenti di titoli pubblici, in pratica un’emissione di valuta per congelare parte del debito.
5. CONCLUSIONI.
Se si porteranno avanti gli interventi programmati finanziandoli in deficit, in linea con le indicazioni di Mario Draghi (cui molti vorrebbero affidare un ruolo politico nazionale), nel 2021 il rapporto debito/pil diventerà il problema principale del governo italiano, di qualunque colore esso sia.
A mio parere bisognerebbe attivarsi immediatamente per portare avanti due proposte parallele:
- la parziale cancellazione del debito da parte della BCE a fronte di una riconversione ecologica della nostra economia (all’interno del Green New Deal europeo).
- il finanziamento di parte del debito pubblico rimanente tramite il risparmio nazionale (come ad esempio viene fatto in Giappone); con tassi che garantiscono poco più del recupero dell’inflazione.
Ovviamente anche la chiusura dei paradisi fiscali e l’eliminazione delle regole che permettono il dumping fiscale in alcuni paesi europei sarebbero altamente auspicabili, ma dopo anni di studi che hanno evidenziato gli impatti sulla disuguaglianza di reddito e sulle mancate entrate fiscali, è ormai chiaro che non c’è una reale volontà/possibilità di intervento da parte di una politica sempre più succube della finanza.