Quando il fare è stato finalizzato a fare sempre di più ha cominciato a distruggere sistematicamente la bellezza. Sia la bellezza originaria del mondo, sia la bellezza aggiunta dal fare bene nel corso dei secoli. Nella finalizzazione del fare al fare sempre di più, il mondo è stato ridotto a serbatoio di risorse e discarica di rifiuti. Per ricavare quantità sempre maggiori di risorse si è distrutta senza rimpianti la bellezza di paesaggi naturali o antropizzati. Per trasformarle in quantità sempre maggiori di merci la superficie terrestre è stata ricoperta di incrostazioni orripilanti di edifici e d’asfalto, i fiumi sono stati trasformati in fogne e riempiti di sostanze velenose, l’aria è stata intossicata di fumi orribili a vedersi e devastanti a respirarsi, sono stati abbattuti boschi secolari.
Sarebbe stato possibile perseguitare la bellezza originaria del mondo e la bellezza aggiunta dal fare umano quando non era finalizzato a fare sempre di più, ma era un fare bene finalizzato alla contemplazione, se la bellezza fosse ancora stata considerata un valore nell’immaginario collettivo e nel sistema dei valori condivisi? Se l’arte avesse continuato a proporsi di difenderla anche dalle cause naturali che ne intaccano l’integrità? Se all’arte si fosse continuato a chiedere di esprimere l’esigenza, tanto utopica quanto inalienabile dall’animo umano, di superare i limiti dello spazio e del tempo e creare una continuità tra le generazioni proprio attraverso la difesa della bellezza? Ma come può l’arte preservare la bellezza se le capacità tecniche necessarie a rappresentarla vengono disprezzate e ritenute un freno alla capacità creativa?
Il contributo che, mediante la difesa e la valorizzazione della bellezza nell’immaginario collettivo, l’arte può dare alla definizione di un paradigma culturale capace di arrestare la deriva in cui l’umanità è stata trascinata dalla finalizzazione dell’economia alla crescita della produzione di merci, è un compito entusiasmante anche se non facile, perché occorre ricostruire dalle macerie accumulate in un secolo di distruzioni, di demolizione culturale del saper fare, di semplificazioni, di banalizzazioni, di ideologie spacciate per idee, di marketing spregiudicato spacciato per critica artistica e storia dell’arte, di fatue valorizzazioni verbali del nulla, di arroganza nella gestione del potere.
Il saper fare non è soltanto il mezzo per attuare ciò che si progetta, ma costituisce anche la misura di ciò che si può pensare e progettare.
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Trovate qui, inoltre, il pensiero di Maurizio Pallante a riguardo.