Appezzamenti di terreno irriconoscibili, castagni centenari abbattuti, muretti a secco divelti. È questo lo scenario al quale ha dovuto assistere chi possiede un pezzo di terra nella zona del cantiere di Chiomonte in Val Di Susa. Dopo gli sgomberi cominciati lo scorso giugno, ieri le autorità hanno formalizzato gli espropri dei terreni che compongono l’area dove sarà scavato il tunnel geognostico per la linea ad alta velocità più contestata d’Italia. Come c’era d’aspettarsi i No Tav non sono stati a guardare e da Milano a Roma, passando ovviamente per le montagne valsusine, è stato un rincorrersi di azioni, flash-mob e occupazioni di strade e ferrovie per contestare quello che è considerato “l’avvallo legale dell’occupazione militare di un territorio da parte dello Stato”. Come a Milano con la protesta nella filiale di piazzale Loreto di banca Intesa e poi a Genova dove sono state occupate le sedi del Pd e della Rai, in Calabria è stato bloccato un Eurostar e a Palermo dove si sono registrati degli scontri con la polizia davanti alla stazione centrale.
In valle, fin dalle prime ore del mattino, i manifestanti si sono concentrati al
presidio No Tav di Giaglione. L’obiettivo era di raggiungere la
Baita Clarea, uno dei tanti simboli della lotta valsusina che ora, dopo gli espropri del 27 febbraio, è chiusa dietro le inferriate che proteggono l’area di cantiere. Mentre loro si mettevano in marcia, sfidando l’ordinanza prefettizia che dichiarava zona rossa l’intera area, dall’altra parte, alla
centrale idroelettrica, cominciavano a radunarsi i proprietari per riconoscere i terreni sequestrati e per mettere la propria firma sull’ordinanza di occupazione temporanea.Le persone coinvolte erano 41, ma solo una decina di loro si è presentata per controllare lo stato delle cose. E lo scenario che si sono trovati di fronte, una volta superati gli enormi cancelli che difendono
“il fortino”, come lo chiamano i No Tav, è stato desolante. Le proprietà erano irriconoscibili: non c’era più traccia di muretti, siepi e alberi.
Tutto abbattuto o distrutto per fare posto a strade e discenderie sulle quali per il momento transitano solo i mezzi delle forze dell’ordine. Come spiega
Massimo Bongiovanni, avvocato del team legale No Tav, “I terreni passano in concessione forzosa per 57 mesi a
Ltf e
Rfi. E i proprietari non avranno più accesso ai loro appezzamenti”.Sì, perché anche nei casi in cui i lavori del cantiere non interesseranno l’interezza delle proprietà, le strade rimarranno comunque chiuse, rendendo così impossibile l’accesso dei mezzi agricoli. La prima a varcare i cancelli del cantiere militarizzato è
Maria Belletto, ex contadina di quasi ottant’anni, e sua nuora
Fatima, cittadina peruviana residente da 12 anni in Val di Susa. Lei possiede circa 500 metri quadri di terra, sui quali sorge una casa, con tanto di orto, mulino e castagneto. Ltf e Rfi hanno espropriato circa metà dell’appezzamento e il risarcimento concordato è di
23 euro l’anno. “Una presa in giro”, tuona Fatima. Ma il problema è riconoscere
i confini dei propri possedimenti. “É impossibile riconoscere i miei campi – attacca Fatima – Avrebbero dovuto mettere dei paletti per delimitare i terreni, così è impossibile”.
Veronica Rosso, legale della famiglia Belletto spiega come il procedimento seguito per gli espropri sia il contrario della prassi: “Solitamente prima si fa la visita con i proprietari e solo successivamente si procede a recintarli e ad alterare lo stato delle cose”.
Alla signora Laura invece sono stati espropriati circa 538 metri quadri per un valore di 43.80 euro l’anno. “Su quel terreno avevo un castagneto e ogni anno facevo il raccolto – racconta – E ora come farò?” Le risponde Claudia, una giovane della cosiddetta ala dura del movimento: “Tanto sono castagne al Cs (il pericoloso composto chimico contenuto nei lacrimogeni sparati dalle forze dell’ordine, ndr), chi se le mangia?”.
Mentre sono ancora in corso le visite al cantiere, arriva la notizia che gli studenti medi di Susa hanno occupato l’autostrada A32 all’altezza di Chianocco. Esplodono le grida di gioia fra la folla. Dopo poco però il clima sembra scaldarsi, qualche manifestante munito di tronchese ha tagliato parte del filo spinato del recinto. La polizia si schiera fuori dal cantiere, ma il gesto di una singola signora riporta tutto alla calma. Lei è Marisa, proprietaria della Baita Clarea e volto noto della battaglia contro il Tav. Approfittando del momento di confusione creatosi con il taglio del filo spinato, Marisa tira fuori un paio di manette giocattolo e s’incatena alla recinzione vicino alla sua costruzione: “Se vogliono demolire la baita, devono demolire anche me!”.