Pubblichiamo la traduzione in italiano di un saggio di Guillaume Lohest, direttore delle edizioni della sezione belga dell’associazione ambientalista francofona Nature & Progrès, che nel 2011 ha pubblicato la traduzione in francese del libro La decrescita felice.
Nel saggio di Guillaume Lohest si analizza la tematica dell’autoproduzione, che ha un’importanza decisiva nelle attività del nostro Movimento per la decrescita felice. Le considerazioni che vi vengono svolte, costituiscono un altro tassello del paradigma culturale della decrescita su cui stiamo lavorando e lasciano intravedere la possibilità di costruire rapporti di collaborazione con l’associazione belga di cui fa parte l’autore. (MP)
Guillaume Lohest
L’autoproduzione: un crocevia di cambiamenti
Vittima del suo successo, il libro di Maurizio Pallante, La décroissance hereuse, era quasi introvabile dopo un anno. Le edizioni Nature & Progrès hanno pertanto deciso di ristampare questo saggio graffiante, pieno di humour, d’intelligenza e di esempi pratici. Questo ci offre l’occasione di ritornare su una delle sue idee centrali: l’autoproduzione. E di ampliare la prospettiva… L’autoproduzione non è la panacea, ma certo una chiave che apre molte porte di cambiamento, a condizione, senza dubbio, di avvicinare campi d’azione fino ad ora troppo lontani.
Una delle idee centrali del saggio di Maurizio Pallante è illustrata dalla piccola parabola ecologica dello yogurt autoprodotto. Riassumendola: se tutti facessero da sé il proprio yogurt – e le proprie verdure, e le marmellate, e il pane etc. -, le persone godrebbero di una salute migliore, ci sarebbero meno imballaggi di plastica, meno trasporti, minori consumi di petrolio e quindi meno emissioni di CO2 nell’aria, meno traffico e dunque meno incidenti etc. L’autore parte da questa narrazione, volutamente caricaturale, per sviluppare una distinzione tra le merci e i beni.
L’autoproduzione felice
Se gli esseri umani hanno bisogno di beni e servizi per vivere, ciò non implica che necessariamente siano scambiati sotto forma di merci. Così la decrescita, per Pallante, è precisamente la diminuzione del PIL1, causata da un riequilibrio tra la sfera dell’economia mercantile e la sfera dell’autoproduzione, un tempo chiamata economia domestica, a favore di quest’ultima. «I prodotti del nostro orto e del nostro frutteto – scrive – autoconsumati, non sono merci e, di conseguenza, non fanno crescere il prodotto interno lordo, ma sono qualitativamente migliori alla frutta e alla verdura prodotti industrialmente e acquistati al supermercato. La cura dei nostri bambini, o l’assistenza ai nostri anziani, fornite per amore, sono qualitativamente molto migliori alle cure che possono essere offerte da una persona pagata per farlo. Ma questa attività effettuata in cambio di denaro fa crescere il prodotto interno lordo. L’altra, offerta per amore, no.»
Per Maurizio Pallante, il Prodotto Interno lordo è un indicatore di nocività piuttosto che di ricchezza. Pallante stabilisce una correlazione diretta tra la crescita del Prodotto Interno Lordo e quella delle varie forme d’inquinamento e malessere di tutti i generi. La soluzione, a suo avviso, non è in un ritorno al passato o in una decrescita indiscriminata, ma nella sostituzione più ampia possibile della produzione e degli scambi industriali con l’autoproduzione e gli scambi locali non mercantili. L’autore non è tuttavia completamente folle. Egli sa che due pilastri delle nostre società moderne hanno bisogno di un aumento costante del PIL: l’occupazione e i servizi sociali. Maurizio Pallante sviluppa queste problematiche e propone alcune tracce di riconversione dell’occupazione ma bisogna riconoscere che non esaurisce il dibattito e che gli interrogativi rimangono2.
Alla scala individuale tuttavia, il suo invito è chiaro. “Quante cose si possono o conviene autoprodurre? Dipende dal luogo in cui si vive, dal tipo di lavoro salariato che si fa, dalla fascia d’età, dalle caratteristiche della propria famiglia, dalla sofferenza (culturale, psicologica, esistenziale) che si prova a restare chiusi nella sola dimensione mercantile. Ciascuno troverà la sua dimensione ottimale, cominciando da poco e da ciò che gli sembrerà più facile o più vantaggioso, per estendere progressivamente, se lo riterrà opportuno, la sfera dell’autoproduzione e degli scambi non mercantili.”
L’illusione dell’autarchia
Numerosi sono oggi i giovani che desiderano spingere questa visione fino a raggiungere un’autosufficienza, quanto meno alimentare. Da qualche anno il libri su questo argomento si moltiplicano, al punto che alcuni best-seller degli anni sessantottini vengono rieditati3. Le pratiche di decrescita, di semplicità volontaria, di permacultura trascinano con sé pentole di velleità autarchiche. Toby Hemenway 4 sviluppa a questo riguardo una riflessione senza ambiguità, dopo aver osservato, tra i permacultori americani una tendenza a voler raggiungere l’autosufficienza. Egli ricorda prima di tutto che è impossibile, anche in ambito alimentare. A meno di praticare la coltivazione dei cereali, o l’allevamento a grande scala, un ortolano zelante autosufficiente al 100 per cento in frutta e verdura non soddisfa che il 15 o il 20 per cento del suo fabbisogno calorico.
Hemenway, va ancora oltre. «In quasi tutti i settori, pretendere l’autosufficienza, significa disprezzare le montagne di spalle su cui noi siamo appollaiati. […] ci è apparso evidente che non soltanto l’autosufficienza era impossibile, ma che era un insulto a tutti coloro il cui lavoro soddisfa i nostri bisogni, che era un riaffioramento dello spirito cow-boy che mette l’individuo al centro dell’universo. Allora il termine è stato cambiato in autonomia, per riconoscere che siamo interdipendenti ma che scegliamo di essere meno dipendenti dagli altri. […] Tuttavia, io non credo che occorra immaginare degli individui autonomi, ciascuno dei quali debba sviluppare le competenze per fare di tutto, ma piuttosto delle collettività autonome, nelle quali nessuno debba saper sia coltivare che tessere, ma dove ci sarebbero vestiti e generi alimentari per tutti.»
L’isolamento autarchico è un’illusione; e non è nemmeno desiderabile. L’autoproduzione, alla scala domestica, non può essere un fine in sé se l’unico obiettivo è di liberarsi dal «sistema». Al contrario acquista tutto il suo senso se costituisce una delle piste privilegiate nella ricerca di nuovi equilibri di questo sistema. Ciò esige di collegare l’autoproduzione con tutte le altre forme emergenti di produzione e di scambio. E anche di considerarla da altri punti di vista, in particolare quello della sua praticabilità e del suo potenziale di emancipazione sociale.
L’autoproduzione accompagnata5
Due ricercatori francesi6 hanno da tempo osservato un paradosso: l’autoproduione è inegualmente diffusa. Le classi medie la praticano più che le persone realmente precarie. O queste hanno un interesse più diretto a «fare da sé» per ridurre la loro dipendenza dagli aiuti sociali. Ma «in qualche modo l’autoproduzione è una risorsa inegualmente ripartita. Per molte ragioni che possono accumularsi tra loro, alcune persone non possono impegnarsi in queste attività: difficoltà ad avere un terreno coltivabile, mezzi finanziari insufficienti per l’acquisto degli utensili, mancanza di saper fare, perdita dei saperi per mancanza di pratica o perdita della voglia di fare… Per queste differenti ragioni, alcune persone sono private della possibilità di mettere in pratica questi saper fare della vita quotidiana, e questo rinforza la loro dipendenza dalle misure d’assistenza e perpetua la loro esclusione.7»
Queste osservazioni hanno indotto, in Francia, a costituire nel 1996 il PADES, Programme Autoproduction et Développement Social (Programma di Autoproduzione e Sviluppo Sociale). L’obiettivo di questo programma è di mettere in rete e analizzare le diverse pratiche di autoproduzione al fine di stabilire le condizioni della loro efficacia e della loro diffusione. Questo programma ha identificato alcune iniziative nel settore alimentare – orti collettivi, corsi di cucina -, di ristrutturazione degli alloggi, di mobilità, di abbigliamento e di costruzione di mobili. Questi propositi sono in sintonia con quelli di Maurizio Pallante, quando afferma che «un movimento che si pone l’obiettivo di ricomporre gli equilibri sconvolti dal meccanismo della crescita economica […] non può non proporsi di mettere in rete tutte quelle realtà in cui l’autoproduzione dei beni ha ancora un ruolo centrale. Diffondere il sapere e il saper fare che le caratterizzano può consentire di realizzare un’alternativa concreta alla mercificazione totale, caratteristica della società della crescita.» L’autoproduzione è pertanto considerata come leva di cambiamento sia in una prospettiva di uguaglianza, che di qualità della vita individuale. È all’incrocio dei percorsi dell’ecologia politica e della giustizia sociale. Da cui progettare un vasto cantiere d’educazione popolare… Maurizio Pallante, da parte sua, propone una «nuova alfabetizzazione basata sul saper fare».
Stili di vita collaborativi e monete locali
L’autoproduzione non sarebbe il rifiuto né della tecnologia, né del commercio. Bisogna ribadire questa evidenza? L’avvenire non è il passato. Non ci sarà mai un ritorno al modo di vivere ancestrale dei nostri nonni. La critica della tecnica sviluppata da molti grandi pensatori rimane certamente feconda, ma non implica un rifiuto del mondo contemporaneo o un isolamento da tutta la tecnologia attuale. La tecnica non è neutra ma, almeno, è flessibile. Internet modifica certamente i comportamenti, il rapporto col tempo e le visioni del mondo. D’altra parte, questo rapporto col tempo e queste nuove visioni del mondo si dimostrano capaci di effetti sorprendenti: per esempio facilitando il baratto, il carpooling, il riciclo, il software libero, il turismo condiviso… Questi embrioni di rivoluzione culturale sono complementari all’autoproduzione: sono, come essa, altrettanti utensili che concorrono a realizzare una qualità della vita al di fuori dai circuiti dell’economia di mercato.
La tecnica è neutra?
Spesso si sente dire, a proposito degli strumenti tecnici – per esempio Internet, una “grelinette”8, un erpice rotante, una macchinetta del caffè… – che non sono buoni o cattivi in sé, ma che l’essenziale è farne un buon uso. La tecnologia sarebbe “neutra”. Questa idea, che sembrerebbe indiscutibile, era già presente tra i filosofi greci. Tuttavia, nel XX secolo, molti pensatori hanno dimostrato che gli strumenti tecnici non sono soltanto dei mezzi, ma impongono determinate forme di organizzazione del lavoro e di modelli culturali. Uno di questi pensatori, Jacques Ellul, riassume così le sue riflessioni sulla tecnica: «Ho cercato di dimostrare come la tecnica si sviluppi in modo indipendente, al di fuori di ogni controllo umano. L’uomo moderno credeva di poter addomesticare la natura e non ha fatto che costruirsi un ambiente artificiale ancora più costrittivo. Pensava di servirsi della tecnica mentre è lui che la serve. I mezzi si sono trasformati in fini e la necessità in virtù.» In altre parole, non è in funzione dei bisogni o dei progetti che si sviluppano le tecniche, ma il contrario. Da cui l’interesse di riappropriarsi degli strumenti tecnici al fine di farli diventare ciò che Ivan Illich chiamava “strumenti conviviali”.
Quanto agli scambi mercantili, nessuno si propone di sopprimerli. Maurizio Pallante propone una metafora efficace per ripensare le attività umane. «La sobrietà, l’autoproduzione e gli scambi non mercantili non possono abolire del tutto la dimensione mercantile. Del resto non sarebbe nemmeno auspicabile, perché alcuni beni e servizi possono solo essere acquistati e privarsene peggiorerebbe le condizioni di vita. Ma possono contribuire a ridurla in maniera determinante, riconducendola alle sue dimensioni fisiologiche. Le attività lavorative fatte dagli uomini si sono sempre suddivise in tre settori, che si possono immaginare come tre cerchi concentrici. Il cerchio interno è costituito dall’autoproduzione di beni, il cerchio intermedio dai lavori effettuati nell’ambito degli scambi non mercantili, e il cerchio esterno dai lavori effettuati in cambio di denaro.»
Lo stesso cerchio esterno può essere oggetto di trasformazioni importanti nell’ottica di restituire al denaro il suo ruolo di strumento di scambio. Si pensi alle monete locali e sociali che permettono di reintrodurre il buon senso e l’etica nella produzione di beni e servizi. In questo caso, dei criteri ecologici, sociali o geografici sono integrati nelle monete stesse. Un bell’esempio del cambiamento profondo a cui è invitato oggi ogni militante: piuttosto che predicare la “buona parola” per avvicinare gli individui alla sua causa, il militante lavora per costruire, alla base, degli strumenti efficaci collettivamente.
Una chiave per Nature & Progès ?
Nature & Progrès ha sempre considerato l’autoproduzione come un mezzo pratico per riappropriarsi della propria alimentazione. Le riflessioni degli autori citati e indicati in questo articolo permettono di vedere più lontano. L’autoproduzione si presenta in effetti come una traccia d’azione comune a tutte le tematiche dell’associazione – orticoltura, alimentazione, habitat, decrescita – a tutte le sue preoccupazioni ricorrenti – energia, OGM – e ai movimenti vicini – permacultura, transizione. È anche, d’altra parte, il punto d’ancoraggio di molti progetti importanti come gli orti collettivi, i cantieri partecipativi, la casa dei semi cittadini… Offre, inoltre, un modo di pensare in maniera integrata gli obiettivi di ecologia pratica e di educazione permanente, come sosteniamo col progetto dell’autoproduzione accompagnata. Infine apre uno spazio ancora inesplorato: in seno alla dicotomia persistente tra professionisti e dilettanti, per esempio tra produttori biologici e “semplici” ortolani biologici, reintroduce il tema essenziale del senso e della libertà in un lavoro che sfugga alla distinzione moderna tra occupazione e tempo libero. L’autoproduzione dà un senso nuovo al “profitto”, che può prendere la forma di una carota o di un mattone di terra cruda. Da rifletterci sopra.
1Il Pil, è il Prodotto Interno lordo, ovvero l’insieme della ricchezza prodotta in un dato territorio in un dato periodo. Maurizio Pallante critica in particolare il carattere assurdo di un tale indicatore che registra gli aumenti di ricchezza dovuti alle catastrofi naturali, agli inquinamenti, agli incidenti stradali, alle spese sanitarie etc. Tutte le citazioni di Pallante riportate nell’articolo sono tratte da La décroissance heureuse, édition Nature & Progrès, 2011, pp. 55-69 (capitolo “Sobrieté et autoproduction”).
2Pallante sembra suggerire, per esempio, che ogni diminuzione del tempo di lavoro consente l’autoproduzione di beni e servizi in sostituzione del salario perso. L’equivalenza non è evidentemente così semplice. Sul tema specifico dell’abitazione, non c’è facilmente la possibilità di sostituzione, poiché difficilmente si può autoprodurre un terreno che non si possiede. D’altra parte, gli autocostruttori sanno che i risparmi che ottengono costruendo da stessi la casa si rivelano spesso infimi rispetto alla perdita di reddito causata da una eventuale riduzione dell’orario di lavoro. L’autoproduzione in termini strettamente monetari, non è sempre possibile.
3Tra gli altri: John Seymour, Guida all’autosufficienza, Mondadori; Il libro dell’ortofrutteto, Mondadori
4Toby Hemenway è un biologo americano conosciuto per i suoi scritti sulla permacultura e i problemi ecologici. Tra di essi Gaia’s Garden: A Guide to Home-scale Permaculture, 2001. Le proposte citate nell’articolo sono riprese da un testo intitolato Le mythe de l’autosuffisance, tradotto dall’inglese da www.arpentnourricier.org
5Un progetto francese (statale) che ha molte analogie con la nostra (volontaria) Università del saper fare. (Nota del traduttore).
6Daniel Cérézuelle e Guy Roustang, Autoproduction accompagneé, un levier de changement, Toulouse, Éditions Érès, 2012
7Intervento di François Cottreel, incaricato di missione al PADES
8Strumento agricolo manuale, inventato da André Grelin nel 1963, che consente di arieggiare il terreno di un orto, riducendo la fatica rispetto alla zappa e senza rivoltarlo. In italiano viene chiamato “bio-forca”.