C’è un manipolo di giovani ribelli, giù in Calabria, una piccola guarnigione a difesa di un’arte antica: sono i ragazzi della Cooperativa Nido di Seta a San Floro (Catanzaro), tre spiriti liberi che si occupano di 3.500 piante di gelso, di cinque telaini di bachi – circa 100.000 animaletti – e di tutte le fasi di lavoro che trasformano i bozzoli in quel miracolo millenario che è il filo di seta. E lo fanno alla maniera tradizionale, come si faceva 500 anni fa.
Una scelta che non ha il sapore di un ripiego nostalgico o dell’ultima chance, ma che è il frutto maturo di un percorso reale e mentale che moltissimi ragazzi del Sud sono costretti a fare. Domenico, Miriam e Giovanna hanno viaggiato e studiato “fuori” per poi tornare alle proprie origini: la Calabria – come scrivono sul loro sito web – ha sussurrato loro “credete in me, non abbandonatemi!”. Così, grazie a un progetto sperimentale sviluppato nella loro piccola città e mai decollato, il Nido di Seta chiede e ottiene di potersi occupare del gelseto impiantato con fondi europei e poter investire in un settore che anticamente era una struttura economica portante tra Calabria e Sicilia, quello della gelsibachicoltura.
In un mondo in cui si privilegia ciò che è “grande” e si strizza l’occhio alle multinazionali, sovrasfruttando i terreni e la forza lavoro, rimanere “piccoli”, autentici, ma soprattutto rispettosi della natura – e poterci anche campare – non è uno scherzo. Significa lavorare come muli e convogliare le proprie energie nella direzione di molti progetti che solo nel loro insieme possono garantire la sopravvivenza. Il Nido di Seta, infatti, costruisce il proprio successo sulla multifunzionalità dell’agricoltura, intesa soprattutto come rivitalizzazione di una cultura dimenticata e basata sull’amore per la terra: i gelsi producono more dalle quali ricavare marmellate e tinture tessili naturali, il bosco in cui prosperano offre un cammino sereno e silenzioso per i turisti, i bachi donano la seta con cui l’artista del gruppo, Giovanna, realizza gioielli e organizza laboratori alla portata di tutti coloro che intendono avvicinarsi ad una dimensione nuova della fantasia e il piccolo museo della seta ( di cui la Cooperativa ha la gestione), situato in un castello del 1400, rispolvera la storia di una bellissima regione italiana che è anche la storia di una principessa cinese di 5000 anni fa e di un segreto custodito gelosamente per secoli, svelato poi all’Europa ai tempi dell’Imperatore Giustiniano.
La gelsibachicoltura, però, non è solo una vaga reminiscenza o l’ultima testimonianza di un sapere che fu. Oggi è anche un trend economico che si mostrerebbe, almeno sulla carta, del tutto ecocompatibile. Lo asserisce il CRA-API, il Consiglio per la ricerca in agricoltura, Unità di Apicoltura e Bachicoltura, il 28 aprile di quest’anno in un’audizione in Commissione Agricoltura al Senato. La Cina, vi si sostiene, ha sempre dominato il settore della seta grazie a enormi sacche di forza lavoro a buon mercato, lo sfruttamento delle quali non ha mai stimolato l’innovazione tecnologica. Tuttavia, il processo di industrializzazione cinese ha causato, come nel resto del mondo, l’abbandono delle campagne, un elevatissimo inquinamento ambientale e un netto prevalere delle colture alimentari rispetto alla bachicoltura. Il risultato è che la Cina produce oggi non solo molta meno seta, il cui prezzo sul mercato è aumentato vertiginosamente, ma anche di qualità peggiore. L’Europa, e più segnatamente Italia, Francia, Svizzera e Regno Unito, tentano quindi di diventare i protagonisti di questo nuovo scenario e si organizzano per investire in quello che viene ritenuto un progetto di sicuro successo.
La gelsibachicoltura sembra inoltre un terreno di sviluppo in sintonia con le esigenze dell’ambiente. Il baco da seta è una vera e propria sentinella della natura perché richiede un habitat incontaminato per potersi riprodurre: i gelseti non possono essere in alcun modo trattati con antiparassitari e devono collocarsi in aree che non siano limitrofe a campi in cui si faccia uso di sostanze chimiche. Il gelso (Morus), nelle sue varietà Nigra e Alba (gelso nero e bianco, di cui solo la seconda è alimento per i bachi) è una pianta rustica, ossia molto resistente e adatta a qualunque tipo di terreno, quindi concorrenziale alle colture alimentari intensive che richiedono specifiche caratteristiche pedologiche e così dannose per la biodiversità. Le more devono essere raccolte a mano, sulle scale, perché sono estremamente delicate: le macchine non servirebbero a nulla, conta solo la pazienza. Del baco, poi, non si butta via nulla: i suoi escrementi sono ottimi fertilizzanti, con le proteine della fibra (sericina e fibroina) si fa il sapone, dall’olio di crisalide si ricavano rimedi naturali per la psoriasi, fino all’utilizzo vero e proprio della seta non solo nel tessile, ma anche in scienze biomediche, perché pare che con la seta si potranno creare perfino tendini artificiali e protesi vascolari.
Le esperienze portate avanti dalle cooperative sociali, inoltre, dimostrano che la gelsibachicoltura, per l’elevata quantità di mano d’opera che richiede, si presta moltissimo all’occupazione lavorativa di soggetti fragili e di norma emarginati dal mondo del lavoro e si adatta particolarmente alle piccole realtà dove ci sono strutture inutilizzate per l’allevamento di altri animali, con la possibilità di organizzare percorsi naturalistici e fattorie didattiche.
Ma un progetto di “Seta Etica”, come riportato nelle pagine dell’audizione al Senato del CRA-API, ossia un progetto di “reintroduzione della gelsibachicoltura in Italia con finalità di sviluppo sociale, economico ed ambientale” è davvero realizzabile? Dalle stesse pagine, si evince che l’attenzione alla produzione serica è tutta industriale e soprattutto concentrata nei distretti tessili del Nord.
Quanto interesse c’è a favorire davvero le piccole realtà per le quali la gelsibachicoltura è anche un mezzo di ripartizione del rischio connaturato alle pratiche agricole e agli sbalzi del mercato?
La formula della Cooperativa Sociale può sempre garantire che le nobili finalità che si prefigge vengano poi realmente perseguite?
E quanto futuro c’è per il Nido di Seta che in un contesto così difficile come quello calabrese si pone come obiettivo preciso l’autenticità e la riscoperta delle antiche tradizioni dell’artigianato regionale?
Miriam, Giovanna e Domenico non sono spaventati dal turbine dell’economia moderna che, nel perseguire la crescita ad ogni costo, schiaccia le persone e distrugge l’ambiente e la storia. Ritengono che la rete, quella fatta di buone intenzioni e di uomini e donne animati dalla stessa visione, sia la strada da percorrere per chi vuole conservare i propri principii. Nell’intervista che hanno rilasciato a questo portale infatti dicono: “Una realtà come la nostra da sola è un pesce nell’oceano: in futuro ci piacerebbe creare, in collaborazione con altri soggetti, un consorzio calabrese per la bachicoltura e lo stoccaggio del bozzolo fresco. In ogni caso la nostra produzione adesso si colloca in quel settore di nicchia in cui qualità e unicità del tessuto realizzato fanno la differenza”.
Loro non hanno alcuna intenzione di cambiare rotta e la loro concezione della vita non è per niente campanilistica o particolaristica quando affermano che bisogna “tenere viva la memoria storica, rimboccarsi le maniche e partire dai nostri centri rurali e dalle campagne, elaborando nuove politiche locali che diano slancio a tutti quei settori in cui la Calabria può offrire molto”.
Tolstoij disse: “Se vuoi essere universale, parla del tuo villaggio”. I piccoli centri, le singole esperienze, quei saperi impolverati dal tempo, tutte quelle cose di cui la nostra società sembra non voler più tenere conto, non sono inutili, né privi di valore. Indubbiamente, non portano grandi profitti, non garantiscono l’effimero quanto insostenibile standard di vita che l’Occidente vuole imporre al resto del pianeta, ma hanno un grande significato in quanto tutte forme di resistenza.
A voler “guardare lungo”, come ogni buon contadino impara a fare con l’esperienza, è probabile che nell’era delle grandi federazioni economiche (molto più che politiche), le tendenze centrifughe vengano travolte da meccanismi che perfino chi li ha brevettati non riesce più a controllare, ma non per questo la resistenza sul territorio perde di rilevanza. Anzi, il suo valore diventa tanto più universale quanto più è portata avanti nei luoghi dimenticati e di confine. Nei villaggi, appunto.
Tre ragazzi calabresi ce lo dicono chiaro e tondo ogni giorno con le mani rosse di gelse-more e con la passione tipica non di chi è giovane, ma di chi ha uno scopo e uno sguardo fiero sul mondo. E se c’è una cosa che può diventare virale è proprio l’entusiasmo che sfida (e abbatte) anche le mura più alte.
Miriam Corongiu
Fonte: decrescita.com