Di Alessandro Perosa
- In principio era un grido di battaglia
Sluaghghairm, da cui slogan, è una parola di derivazione gaelica – composta dai termini ghairm ‘grido’ e sluagh ‘guerra’ – che significa grido di battaglia lanciato dai componenti di una tribù o di un clan contro i propri nemici. La sua prima attestazione in italiano risale al 1905, quando il termine viene usato per significare sentenza o massima, così come anche talvolta leitmotiv, parola d’ordine di una causa o linea di partito.
Parallelamente a questi significati, nel XX secolo, il mondo occidentale ha declinato il termine slogan anche – e soprattutto – in ambito pubblicitario come sinonimo di motto creato per caratterizzare un prodotto. E così, nel processo di onnimercificazione compiuto negli ultimi duecento anni dalla razionalità capitalista, prima, e da quella tecnologico-capitalista[1], poi, da originario grido di battaglia ha finito per significare in modo quasi esclusivo «frase ad effetto, brevissima e incisiva, della pubblicità commerciale»[2].
L’orizzonte semantico contemporaneo lo considera, quindi, uno strumento espressivo sintetico, rapido ed efficace, spesso orecchiabile, pronunciato con l’intento di enunciare un concetto, magari risaputo e spesso ovvio, destinato a restare impresso il più possibile nella mente del destinatario. Si tratta di una frase fatta, di una locuzione che serve a blandire, a circuire le persone, persino a confonderle, e non certo a coinvolgerle in un processo relazionale paritetico e linguisticamente significante. Chi ha interesse a spostare l’attenzione delle masse su un oggetto o su un fatto minore, usa la tecnica dello slogan come arma di «distrazione» collettiva. Così come chi vuol convincere i consumatori della bontà di un prodotto, ne esalta a dismisura le qualità con frasi ad effetto, che colpiscono l’attenzione e condizionano i gusti di chi ascolta.
Si pensi, a tal proposito, al fenomeno commerciale delle mode o alla tecnica con cui il potere economico riesce a garantirsi ‘nuove’ crescite del volume d’affari, attraverso la spinta compulsiva all’acquisto, stimolata dall’obsolescenza percepita e sorretta dalla pubblicità, che dello slogan si nutre.
Nella società dell’immagine, in cui ci troviamo a vivere, il ‘grido di battaglia’ non può che essere suadente e capace di orientare il senso estetico e i bisogni delle masse, facendosi ben presto strumento di tortura psicologica. Chi opera nel mondo pubblicitario sa che una «frase fatta» e una rima ben assestata consentono di memorizzare senza sforzo un prodotto, che diventa desiderabile principalmente in quanto portatore di novità. Perché il nuovo, in un mondo abitato da chi crede di camminare nel solco dell’innovazione continua e illimitata, è sempre meglio del vecchio. E lo slogan serve proprio a convincere l’acquirente che il prodotto stipato nello scaffale sia davvero il migliore in circolazione: «Acquistalo, e non rimarrai deluso!», è il refrain più noto. «Non seguire il gregge, fai la pecora nera e compra la nostra auto», recitava uno spot di una nota casa automobilistica: salvo però omettere che se tutti i possibili acquirenti fanno le pecore nere, finiscono inevitabilmente per seguire il gregge, non si distinguono più dagli altri e si conformano al gusto mediano.
La «parola pubblicitaria» serve a comunicare messaggi e simboli in modo rapido, attraente e facilmente comprensibile. Per questo motivo, anche il suo stile è linguisticamente mediocre: non si tratta di fare letteratura, di affascinare con narrazioni raffinate, o di viaggiare verso l’utopia coi piedi ben piantati in cielo fra i sogni. Qui si deve solo persuadere l’acquirente della bontà del prodotto: e per farlo non resta che elaborare frasi fatte, facilmente memorizzabili e semplici nella sintassi.
Se si osserva con attenzione il contesto relazionale entro cui agisce questo tipo di linguaggio, ci si accorge però che proprio il proliferare di discorsi concisi e orecchiabili produce una degenerazione sociale e politica. Perché questo tipo di linguaggio non solo controlla e orienta i comportamenti economici della massa, ma finisce per trasformare per intero la lingua – e con essa l’orizzonte culturale – della società.
Il parlare è un atto originario di fondamentale importanza. Chi parla e nomina le cose in modo compiuto e col rispetto necessario, conferisce a queste stesse cose realtà. La realtà quindi non è data una volta e per sempre, ma è parlata. Ovvero, una res è proprio quella res, e non un’altra, perché nell’atto di nominarla s’innesca un percorso di ri-conoscimento linguistico che costituisce la cosa stessa e la rende vitale. La realtà non sarebbe ciò che appare – e non si darebbe a ognuno di noi nelle forme in cui siamo abituati a ri-conoscerla – se non esistesse la possibilità di dire le cose (enti) che appaiono, chiamandole per nome. E dare un nome agli enti significa de-finirli, porli in ordine, collocarli all’interno di un contesto ontologico unitario, costituito dai variegati ‘modi d’essere’ (forme delle res), che chiamiamo realtà.
Non è certo il caso di aprire in queste righe una riflessione sul rapporto generativo tra il parlante e la «cosa nominata», ma è pur sempre utile notare che la parola pronunciata modifica il mondo che abitiamo, e il mondo, a sua volta, condiziona il nostro modo di esprimerci.
Per questo motivo, chi impoverisce il linguaggio attraverso il sistematico ricorso allo sluaghghairm trasforma anche l’orizzonte in cui vive, rendendolo sempre più uniforme e monodimensionale. In un contesto sociale in cui lo slogan assurge a gesto linguistico prioritario, l’intero orizzonte sociale, culturale e politico non può far altro che mostrare lo spazio sloganistico come segno del tempo. Se tutto è riconoscibile linguisticamente attraverso lo slogan, diventano tali anche le parole che nominano l’amore, le relazioni sociali, politiche, le dinamiche interpersonali, che per mostrarsi in forma realmente umana avrebbero invece bisogno di profondità, di riflessione, di pazienza linguistica, di tempo generativo. Un amore soggetto a slogan può essere consumato, ma non certo vissuto con la pienezza necessaria. Lo slogan è il sesso che vince sull’eros; è il bisogno che schiaccia il desiderio; è l’oppressione che annulla la libertà di un’esperienza vissuta in pienezza e gratuità: perché l’atto di donare all’altro tutto se stesso palesa una complessità irriducibile e non rappresentabile in uno spot. Quando tutto è slogan, la donazione di sé diventa anch’essa sloganistica: lo slogan quindi trasforma il mondo e l’uomo in res condizionate dal «grido di battaglia» del mercato. Dove tutto ha un prezzo, soggetto alla domanda e all’offerta.
Ora, non è necessario essere dei raffinati glottologi per capire che la semplificazione linguistica sta trasformando radicalmente gli esseri umani e le relazioni che essi costituiscono con l’ambiente circostante. E d’altra parte, chi ha un minimo di profondità intellettuale, comprende molto bene che questo tentativo di compiere una sorta di reductio ad unum linguistica e culturale è volto a uniformare gusti e orientamenti, in vista di una maggiore ottimizzazione del sistema produttivo. La comunicazione per slogan serve a divertire e a rendere orecchiabile un’idea, una pro-posta commerciale (che diventa surrettiziamente im-posta), un messaggio pubblicitario, che puntano a collocare in tutto il mondo i medesimi prodotti. Chi parla non si preoccupa di sapere se la merce reclamizzata o l’ostentazione di una certa idea sia (almeno per lui) davvero buona o nociva, condivisibile o inaccettabile, dispotica o conviviale, sostenibile o distruttiva. L’importante è che la frase ad effetto resti piantata bene in mente agli ascoltatoti, e sappia sovrastare le altre «grida di battaglia» che si affacciano nell’agone con sempre maggior violenza, tenacia e ostinazione.
In un mondo in cui le informazioni sono sovrabbondanti, è necessario andare rapidamente al dunque, e per farlo bisogna ridurre il vocabolario ai soli termini che abbagliano. Per questo motivo, l’uso reiterato di questa tecnica comunicativa finisce per imbarbarire il linguaggio, che punta soltanto all’eufonia e alla pronta memorizzazione, conseguite attraverso metodiche di costruzione sintattica prese in prestito – non prima di averle stravolte – dalla poesia[3]. D’altra parte lo slogan è spesso in rima e costruito secondo una metrica che gli conferisce un andamento ritmico suadente, tale da prestarsi alla facile memorizzazione. La sua fortuna è anzitutto musicale: strutturalmente è di certo più vicino al rap che alla musica «colta». Ovvero, si presenta con un’idea schematica e superficiale, che si esprime in poche formule approssimative[4]. La musica ritmica e le parole eufoniche si fanno jingles, si insinuano nei meandri della memoria e consentono di accomunare una frase ad effetto a un determinato prodotto.
Chi abita dentro l’orizzonte tecnologico-capitalista fa ogni giorno esperienza di questa neolingua. Nessuno può dirsi al sicuro, nessuno può pensare di farla franca, neppure chi crede di appartenere all’élite culturale. Perché gli stessi pubblicitari sono vittime dei messaggi che inventano: d’altronde se il limite del mio linguaggio è il limite del mio mondo, chi inventa o parla per slogan finisce per vivere irrimediabilmente nel mondo sloganistico che ha creato. Egli ne è parte, ne viene condizionato come tutti gli altri. È questa, se si vuole, la vittoria dello strumento sulla razionalità: è il dominio del mezzo che prende pieno possesso dell’essere umano, trasformandolo dalle fondamenta.
Lo slogan s’impadronisce di tutti noi rendendoci marionette in mano altrui. Slogan è la voce del potere impersonale, è la voce di chi vuole massimizzare il dominio e punta dritto al sodo, ben sapendo che questo sodo è violenza, sopruso, proprietà: ma disconoscendo, al contempo, che proprio quel sodo a cui aspira è la lama affilata con cui l’homo publicitarius sta tagliando il ramo sul quale è seduto.
- Lo slogan è la forma violenta della parola economica
Lo sluaghghairm è una lama di coltello che entra nel cuore dell’essere, fino a sfibrarlo; è uno strumento linguistico feroce, che abita la scissione ontologica, se ne nutre, e cibandosene approfondisce il solco che separa il singolo dal contesto in cui si trova[5]. Per colmare questa frattura violenta è necessario portare a compimento l’orizzonte entro cui si rende pensabile ogni parola, ogni azione, ogni istituzione, ogni potere del «nostro» mondo ontologicamente frammentato; è necessario condurre al tramonto l’occidente, ovvero farlo morire, ch’è poi un portarlo alle estreme conseguenze, per vederlo finalmente schiantare sulla linea estrema del proprio mondo; sì che lì, al confine tra cielo e terra, possano scorgersi un giorno le luci di una nuova alba utopica.
Se lo slogan porta all’eccesso la frammentazione ontologica (ovvero la scissione fra l’Io e il contesto naturale, fra l’Io e l’altro da sé: umano e non umano), il logos paziente, rispettoso e pronunciato sottovoce – quasi sibilando – apre le porte a una relazionalità conviviale e fraterna di tipo orizzontale, in cui tutti si riconoscono reciprocamente come parlanti. La parola, che si affranca dalla voracità, conferisce una pacifica realtà al mondo; il discorso conviviale fa partorire lentamente le cose, le ordina sullo spazio esperienziale e le pone in una relazione costitutiva non-violenta: le une senza le altre sarebbero impensabili, perché ogni cosa è proprio quella cosa in virtù dei rapporti ontologici e linguistici che la parola stessa costituisce con l’essere circostante. Mentre il tecnicismo sloganistico scinde i legami e s’impone sulla scena come un Deus ex machina che condiziona il mondo, manipolando le facce esterne (che sono gli elementi formali chiamati significanti) e talvolta anche quelle interne (i significati) dei termini. Per questo lo slogan è lo strumento prediletto dall’ideologia, che pretende di dire il vero e costringe la realtà poliedrica ad entrare all’interno di uno schema preordinato, sfinendo la realtà stessa e coartando la libertà d’ognuno.
Chi vuole liberare il proprio linguaggio dalla violenza non può far altro, allora, che ripensare dalle fondamenta nuove forme sintattiche capaci di «prendere tempo». Il discorso paziente e-duca i parlanti, che dalla relazione conviviale traggono nuova linfa esistenziale; si vive nel discorso, perché le parole che nominano le cose, consentono un reciproco riconoscimento. Chiamare qualcosa col proprio nome significa dargli realtà, portarlo in superficie, relazionarsi al suo modo d’essere, ovvero alla sua forma. E non è forse proprio questa l’idea di Simone Weil, quando nel ragionare sul bene e sul male scrisse: «È bene ciò che dà maggiore realtà agli esseri e alle cose, male ciò che gliela toglie»[6]?
L’uso sistematico dello slogan non è ristretto al solo ambito economico, ma in una società dell’onnimercificazione tutto viene ridotto a mercato e a relazioni mercantili. Si pensi ad esempio al condizionamento subito dallo sport e dalla politica, che dello slogan continuano a fare ampio uso con conseguenze incalcolabili sulla riduzione dell’immaginario sociale. Il motto politico imbarbarisce il discorso e lo rende commerciale. Le proposte programmatiche si trasformano in banali consigli per gli acquisti, in promesse vuote, anche se magari di particolare effetto. E non è un caso che la politica sia scomparsa ormai da tempo dalle sedi di partito, dai luoghi storici d’aggregazione, dalle piazze, dai cortei, dai luoghi di cultura, finendo relegata negli angusti ambiti dei talk show televisivi. Luoghi fittizi in cui maschere parlanti urlano e cercano il consenso senza curare minimamente la profondità della riflessione e il rigore del pensiero.
Ma c’è di più. Un di più rappresentato dal web, ch’è ormai la dimensione principale in cui si trova a vivere l’homo technologicus. E questo di più è una voragine senza fondo, che rischia di inghiottire ciò che incontra, ricacciandolo nel ventre dell’insignificanza. Perché la parola pronunciata nello spazio virtuale è parola che vive a nessun dove: ma questa, più che anelare all’utopia, spinge difilato verso la distopia ideologica del potere tecnico che sottomette ogni cosa all’incremento del suo dominio.
Quando si ragiona sul linguaggio in rapporto al mondo virtuale, è necessario cercare di capire quale sia la dimensione verbale di quel mondo. O per dirla altrimenti: dato che i limiti del mio mondo significano i limiti del mio linguaggio, quando mi trovo a chattare sui social, che tipo di parole uso? E che mondo è quello dei social? Dove si trova? E che valore hanno le parole mediate da una tastiera e da uno schermo? E l’altro, con cui entro in relazione, esiste davvero, è una persona che conosco e che immagino stia parlando con me in questo momento, o ignorando chi sia (perché non lo conosco, non l’ho mai visto, non so neppure dove abiti), io suppongo che il tizio con cui credo di parlare esista sul serio, quando invece potrebbe essere un fake, magari anche autogenerato dal computer?
Ma non è ancora tutto. La tecnologia ha finito per trasformare dalle fondamenta il mondo, e con esso anche l’essere umano: le sue abitudini, il suo linguaggio, le sue passioni. A fronte di una scissione ontologica, di una frantumazione della relazione sociale, si cerca la connessione continua col mondo virtuale. Nessuno è più in grado di stare con se stesso, di abitare il silenzio, e paradossalmente ciò avviene all’interno di un contesto sociale che spinge sempre più alla frammentazione, alla disgregazione dei legami sociali. Perché quando si è soli si è anche più facilmente preda del mercato. E così, l’homo technologicus abita da ignaro la separazione, il rintanamento sociale, per poi connettersi alla grande rete virtuale che collega singole monadi in tutto il mondo. Egli incarna realmente la solitudine, per vivere relazioni artificiali sui social. E nel percorrere a perdifiato la contemporaneità tecnica, arriva al paradosso per cui i ritmi di vita sono così pressanti e disumani da rendergli impossibile qualunque altro tipo di rapporto che non sia mediato dallo schermo di un computer. Perché deve lavorare, consumare, produrre a ritmi sempre più sostenuti. E al contempo – è qui l’inganno – crede a torto che quello spazio di vita sociale perduto, lo possa recuperare in maniera fittizia navigando in internet: con l’illusione di avere il vento in poppa e il mondo a portata di mano.
Ma sui social non si può parlare davvero, ed è impossibile esprimere un ragionamento sul serio, un pensiero profondo che abbia un minimo senso, che intenda esprimere un sentimento, una visione, una lettura del mondo e della vita. Davanti allo schermo non ci sono gli occhi dell’altro a guardarti. Non si sente il suo respiro affannato o gioioso, non vedi le emozioni scintillargli dagli occhi, e non esiste il mondo con le sue luci e i suoi colori cangianti. Hai solo uno spazio bianco virtuale su cui scrivere uno stato (d’animo?) che qualcuno commenterà, probabilmente senza neppure averlo letto bene. D’altra parte non c’è tempo, e le parole sono sempre troppe. Così, per fare in fretta, non resta che esprimersi per slogan, per frasi fatte, masticate e vomitate una miriade di volte da pubblicitari che intendono orientare gusti e bisogni. Frasi che non significano niente, perché sono decontestualizzate, perché non si ha l’agio di difenderle, di argomentarle, di criticarle. Nei social è come se le parole calassero dall’alto, da un altrove insondabile, sconosciuto. E allora tutto diventa inutile: non ha più senso distinguere, articolare pensieri, ragionare. La parola non significa più niente, ma serve soltanto a lanciare un grido. Che maschera spesso un’accorata richiesta di riconoscimento. D’altronde cos’altro è la lotta per emergere sugli altri, per scalare la piramide sociale, per la fama? Cos’è la rincorsa al successo televisivo e mediatico in genere? È un disperato bisogno di vedersi riconosciuti in un mondo che ha distrutto le relazioni ontologiche, i legami sociali e familiari, lasciando tutti soli e in balia del mercato.
Per tutta questa serie di motivi sin qui discussi, la decrescita felice – che si propone di ricucire le scissioni ontologiche, riequilibrando i rapporti fra gli esseri umani e il resto della natura – non può assumere in alcun modo le caratteristiche di una «parola bomba», né tanto meno venir confusa con lo slogan. Perché lo slogan è la forma violenta della parola economica.
Fonte: www.mauriziopallante.it
[1] Per comprendere in quale senso debbano essere intese la cultura capitalista e quella tecnologico-capitalista si rimanda al saggio: A. Pertosa, Dall’economia all’eutéleia. Scintille di decrescita e d’anarchia, Edizioni per la decrescita felice, Roma 2014, (si veda in particolare il capitolo III).
[2] M. Cortellazzo – P. Zolli, Il nuovo etimologico, Zanichelli, Bologna 2015, p. 1540 (nota relativa alla voce slògan).
[3] Cfr. F. Sabatini, Il messaggio pubblicitario da slogan a prosa-poesia, «Il Ponte» 24 (1968), pp. 1046-1062 (il saggio è stato ristampato in Le fantaparole. Il linguaggio della pubblicità. Antologia, a cura di M. Baldini, Armando, Roma 1987, pp. 91-98; poi in Chiantera 1989, pp. 121-138); A. Stefinlongo, L’italiano che cambia. Scritti linguistici, Aracne, Roma 2008, pp. 195-219.
[4] Il vocabolario Treccani, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 2003, p. 1690.
[5] Della scissione ontologica ho parlato diffusamente in Pertosa, Dall’economia all’eutéleia, cit. (si vedano in particolare i capitoli III e V).
[6] S. Weil, Quaderni (volume primo), Adelphi, Milano 2010, p. 199 (or. Cahiers, I, Librairie Plon, Paris 1970).