Decrescita, Decolonialità e Intersezionalità: radici di un futuro possibile
L’assunzione che ciò che attualmente esiste debba necessariamente esistere
è l’acido corrosivo di ogni pensiero immaginativo. -M. Bookchin –
Il 10 settembre 2022, avevo appena terminato di partecipare al convegno sulla Decrescita che avevamo organizzato a Venezia per celebrare il decennale dalla Conferenza Internazionale del 2012 (1). Quella sera siamo andati tutti inisieme verso il Venice Climate Camp per partecipare a un evento co-organizzato dalla conferenza Venezia2022 e gli attivisti dei movimenti climatici.
Le relatrici di quell’evento erano Vandana Shiva, Ilham Rawoot e Havin Guneser e il titolo della conferenza era riprodotto a caratteri cubitali su uno grosso striscione all’ingresso del campeggio: “Degrow the North, Decolonize the South, Defund Capitalism”.
Era la prima volta che vedevo in Italia la parola “Decrescita” usata al di fuori di spazi o gruppi direttamente coinvolti nel movimento. Ero piuttosto impressionato. Fui ulteriormente colpito nel trovare la parola decrescita associata al concetto di decolonialità.
In quello slogan ho trovato alcuni concetti chiave attorno ai quali sembra si stia prefigurando lo scenario di cambiamento di cui abbiamo bisogno per affrontare la crisi multilivello in cui ci troviamo.
Un nuovo terreno di incontro
Quello che ho potuto osservare in Italia negli ultimi tre anni è che diversi movimenti critici nei confronti del sistema dominante hanno cominciato a confrontarsi e a convergere attorno a tre questioni chiave:
- la necessità di contrastare la crisi ecologica in uno scenario post-crescita;
- l’affermazione che questo processo debba procedere attraverso una prospettiva decoloniale
- e l’ambizione che questo obiettivo debba essere raggiunto senza riprodurre sistemi di dominio e sfruttamento (classismo, patriarcato, omotransfobia, xenofobia e razzismo, abilismo….).
È un processo ancora embrionale, pieno di contraddizioni e di incognite, ma si possono trovare segni concreti di questa convergenza ad esmpio nell’alleanza formata lo scorso anno tra il movimento per il clima e il collettivo di fabbrica della ex-GKN (2) o, più recentemente, nella settimana di lotta unificata tra il movimento per il clima e il movimento transfemminista di questi giorni (3).
Decrescita, Decolonialità e Intersezionalità potrebbero essere considerati i tre concetti attorno ai quali si sta raccogliendo un movimento plurale di trasformazione.
Ma perché sono così importanti?
Tante crisi diverse, una sola causa
Stiamo vivendo una delle epoche più incerte della storia umana, caratterizzata da una crisi multilivello su scala globale.
Una prospettiva cruciale, che dobbiamo assumere per interpretare il presente e provare a immaginare un futuro collettivo, è capire che queste crisi non sono separate l’una dall’altra e non possono essere affrontate separatamente.
Riscaldamento globale, crollo della biodiversità, aumento della povertà e delle disuguaglianze locali e globali, guerre e conflitti, colonialismo e imperialismo, sfruttamento dei lavoratori e delle donne, crisi assistenziale e della cura, pandemie virali, peggioramento della qualità della vita e della salute mentale… Questi non sono effetti evitabili di questo sistema economico, ma sono caratteristiche intrinseche del capitalismo, un’economia basata sulla massimizzazione della crescita, e conseguenze dirette del suo funzionamento e della sua storia.
Decostruendo la narrativa dominante diventa chiaro che queste crisi non possono essere affrontate all’interno dell’attuale sistema socio-economico-culturale ma è necessario immaginare una transizione verso nuovi sistemi, in grado allo stesso tempo di dare risposte a tutte queste richieste di cambiamento.
Decrescere per invertire il collasso ecologico. La menzogna del disaccoppiamento.
Gli effetti della crisi ecologica non sono più negabili: l’aumento delle temperature, gli eventi climatici estremi, la riduzione della biodiversità, i contagi da spillover e la siccità stanno minacciando la sopravvivenza delle popolazioni su scala globale, colpendo anche i paesi del Nord del mondo che, per decenni, hanno volutamente ignorato gli effetti ecologici del propri livelli di consumo.
Secondo l’IPCC lo scenario più probabile, proseguendo con gli attuali tassi di crescita, prevede che nel 2100 la temperatura globale salirà tra +3 e +6°C. Questa temperatura è definita “incompatibile con la vita così come la conosciamo” e, per questo, nel 2015 sono stati firmati gli Accordi di Parigi, al fine di ridurre le emissioni di anidride carbonica e mantenere il livello di riscaldamento globale al di sotto di 1,5°C rispetto ai livelli pre-industriali.
Nonostante siano passati sette anni da allora, nessun Paese aderente agli Accordi è concretamente sulla buona strada per rispettare in i propri obiettivi di riduzione delle emissioni e, a livello globale, la concentrazione di CO2 in atmosfera continua ad aumentare, sfiorando i 420ppm. (4)
Negli ultimi centocinquant’anni c’è stata una correlazione diretta tra la crescita esponenziale del PIL e l’aumento esponenziale dell’utilizzo di materia ed energia e della produzione di inquinamento e materiale di scarto, compresi l’accumulo di CO2 e di altri gas serra.
La narrazione della “Crescita Sostenibile” suggerisce sia possibile ottenere, attraverso l’innovazione tecnologica e organizzativa, un livello di efficienza tale da raggiungere il disaccoppiamento. In questo contesto, per disaccoppiamento si intende il fenomeno per cui sarebbe possibile aumentare il PIL, la produzione e i consumi, riducendo allo stesso tempo, gli impatti ambientali, il consumo di risorse e l’inquinamento.
Per invertire i processi di devastazione ecologica attuali, servirebbe un disaccoppiamento permanente, globale e sufficientemente rapido e ampio da raggiungere in tempo gli obiettivi degli accordi di Parigi ed evitare di superare altre soglie di sostenibilità.
Ad oggi queste condizioni non si sono mai verificate e le evidenze ci indicano che è impossibile che si verifichino in futuro. La Crescita Sostenibile è un mito pericolo che sta impedendo una seria presa d’atto della fine di questo sistema economico. (5)
Una tragedia ecologica diseguale
La complessità e l’urgenza diventano ancora più importanti quando il problema del collasso ecologico viene affrontato alla luce delle disuguaglianze globali. Il nostro sguardo coloniale ci induce a pensare al problema ecologico come una sfida “globale” con tutti i Paesi coinvolti, ma ci sono enormi differenze nella responsabilità storica e nelle conseguenze.
Ad esempio, il 92% delle emissioni di CO2 è storicamente dovuto ai paesi del Nord del mondo e solo una piccola parte delle emissioni globali – 8% – è dovuta al Sud del mondo (6). Profonde disuguaglianze si manifestano anche negli effetti del cambiamento climatico: a causa di vulnerabilità geografiche e/o fragilità strutturali, i paesi del Sud del mondo hanno attualmente subito il 90% dei decessi riconducibili alle conseguenze del cambiamento climatico. (7)
Qualsiasi politica che ignori questi processi storici disuguali rischia di porre limiti a loro volta diseguali e di riproporre dinamiche coloniali su base ecoclimatica. Ad esempio, immaginare una politica che imponga “zero emissioni nette” indiscriminatamente a tutti i paesi, vedrebbe i paesi più ricchi ad assestarsi su un livello di emissioni tre volte superiore al proprio livello di overshoot, mentre nei paesi più poveri questa imposizione bloccherebbe il loro potenziale di sviluppo alla metà di quello che sarebbe il loro “diritto di emettere”. (8)
Non è possibile pensare a una soluzione giusta e sufficientemente rapida al collasso ambientale senza immaginare una riduzione della produzione e del consumo di beni e risorse da parte degli stati del Nord del mondo e, quindi, la fine dell’economia della crescita.
Capitalismo: una storia di dipendenza dalla crescita e dallo sfruttamento senza generazione di benessere
Se la prospettiva di un mondo senza crescita ci fa paura è perché siamo cresciuti culturalmente e materialmente in un sistema economico dipendente dalla crescita continua, che ha associato l’idea di accumulazione materiale all’idea di benessere.
Il sistema capitalista è la forma economica che più dipende dalla crescita continua: l’obiettivo dichiarato è la massimizzazione del PIL come promessa di benessere.
Nonostante l’esponenziale crescita del PIL globale intorno al 2-3% annuo, la promessa di benessere risulta fondamentalmente mancata e caratterizzata da abissi di disuguaglianza: la povertà assoluta non è stata sradicata, le disuguaglianze sono in aumento, le crisi economiche cicliche sono ricorrenti,i livelli di sfruttamento sono in aumento e non c’è nessuna correlazione evidente tra crescita economica, felicità, salute o benessere. (8)
Mentre la crescita materiale viene mostrata come un successo, i costi e le conseguenze di questa crescita sono completamente invisibilizzati o esternalizzati.
Un sistema orientato alla massimizzazione dei profitti infatti sarà portato a ridurre i costi e ad aumentare i guadagni. Il principale meccanismo storico per poter raggiungere questo obiettivo è stato quello di ottenere risorse sempre più economiche e lavoro sempre più economico. Questa tendenza è stata sostenuta da processi violenti e giustificata dalla creazione di costrutti culturali che hanno creato un “altro” e un “altrove” che fosse lecito sfruttare.
Se guardiamo alla storia occidentale attraverso questa prospettiva possiamo leggere alcuni passaggi storici fondamentali perfettamente in linea con questa tendenza.
Risorse e manodopera sempre più economiche: proprietà, povertà e colonialismo
I prodromi del capitalismo hanno inizio nel XVI secolo, inserendosi nel declino del sistema Feudale. In questo momento storico in molte parti d’Europa le rivendicazioni dei contadini avevano portato a notevoli miglioramenti delle condizioni di vita e, allo stesso tempo, avevano progressivamente ridotto la capacità di accumulazione dei proprietari feudali. In questo scenario, la violenta reazione delle élite feudale porterà alla nascita di quei meccanismi economici che caratterizzeranno la storia del capitalismo fino ad oggi.
Il simbolo di questi processi fu l’imposizione delle enclosures, barriere che impedivano l’accesso agli spazi e alle risorse comuni che, storicamente, avevano consentito la sussistenza degli abitanti rurali. Si è così creata una situazione di scarsità artificiale che ha progressivamente peggiorato le condizioni di vita nelle zone rurali e ha aumentato la fragilità e la dipendenza della popolazione.
Furono così inventate allora la “proprietà” e, collateralmente, la “povertà”.
Non potendo provvedere autonomamente alle condizioni di sussistenza, garantite in passato dall’accesso ai commons, gli abitanti delle zone rurali divennero “proletari”, caratterizzati da una condizione di dipendenza in cui qualsiasi possibilità di lavoro era meglio della morte. Con questa ricattabilità e l’avvento della prima rivoluzione industriale questo proletariato divenne lavoro a buon mercato facilmente sfruttabile. (8)
Gli stessi principi di creazione di scarsità artificiale e progressivo sfruttamento sono alla base del colonialismo e la nascita delle colonie. Le economie locali vennero violentemente rimpiazzate da sistemi di produzione e di lavoro funzionali all’accumulazione di risorse e lavoro a favore dell’impero.
La schiavitù e l’estrazione di risorse fornirono all’occidente dal 1500 al 1800 un passaggio netto e “gratuito” di risorse e lavoro che nanscondeva tratta, genocidi e condizioni disumane con la giustificazione razziale.
Il processo decoloniale è passato poi nel IXX e XX secolo attraverso la soppressione di ogni progetto decoloniale autonomo e l’imposizione di un’economia globale neoliberale e il mito dello sviluppo, garantendo così la prosecuzione del dominio economico occidentale sul resto del mondo. (7)
Identità marginalizzate, lavoro invisibile e dominio
Un’altra intera area di invisibilizzazione e sfruttamento riguarda il lavoro riproduttivo, di cura e il ruolo delle donne. L’origine del patriarcato nel mondo occidnetale è culturalmente antecedente alla nascita del capitalismo, ma il processo di marginalizzazione è stato ugualmente assunto dal sistema economico come opportunità di sfruttamento.
All’interno del capitalismo la sola economia e il solo valore riconosciuti sono quelli del lavoro produttivo. Tutto il lavoro che permette il mantenimento della società e il benessere psicosociale della comunità e degli individui è escluso da questo riconoscimento: il lavoro domestico, il lavoro riproduttivo, il lavoro di cura, il lavoro educativo… sono categorie fondamentali al mantenimento di una società ma sono state marginalizzate culturalmente e non quantificate nella grande equazione dell’economia classica.
La loro invisibilizzazione e il loro non riconoscimento hanno permesso di sfruttare un sistema di cura, storicamente a carico delle donne, per mantenere, sostenere e riprodurre un sistema produttivo di sfruttamento senza garanzia di benessere, scaricandone i costi di mantenimento sulla comunità e sul lavoro femminile. Gli anni della pandemia da Covid sono stati la conferma ed estremizzazione di questo meccanismo. (9)
Antropocentrismo, etnocentrismo, razzismo, classismo, colonialismo, patriarcato, xenofobia, omotransfobia, abilismo sono stati assunti ed evoluti in questo sistema economico per creare alterità marginale e giustificare sfruttamento e dominio.
Immaginare un sistema economico che non rischi di riproporre questi schemi di dominio vuol dire decostruire costrutti culturali complessi e interiorizzati, riportare i margini al centro della discussione collettiva e dargli parola e potere.
Quali possibili futuri?
Siamo di fronte ad una sfida di trasformazione, che è una grande emergenza e una grande opportunità per poter costruire un modello nuovo di convivenza e benessere. Per fare questo è necessario creare terreni comuni di costruzione, con pratiche in grado di accogliere la diversità e assumere le lotte dell’altr@ nella propria.
Decrescita, Decolonialità e Intersezionalità potrebbero essere le parole di decostruzione comuni attorno alle quali possa ritrovarsi questo movimento plurale di alternative.
All’interno di questi grandi concetti si muove un pluriverso di intersezioni di proposte che, messe insieme, possono prefigurare una alternativa possibile.
… continua
- Conferenza Venezia 2022 https://www.venezia2022.it/
- Fridays For Future e il Collettivo di Fabbrica GKN annunciano due giornate di mobilitazioni convergenti – 25-26 Marzo 2022 – Link
- 3-8 Marzo 2023 Settimana Ecotransfemminista – Nudm e FFF – Link
- Global Monitoring Laboratory https://gml.noaa.gov/ccgg/trends/
- EEB – Decoupling Debunked report, 2019 – link Libro in italiano
- Te Divide – J. Hikel 2015 – Il Saggiatore
- Che cos’è la decrescita oggi – Kallis, Paulson, D’Alisa, Demaria – Edizioni Ambiente 2022
- Less is More: How Degrowth Will Save the World – J. Hikel 2020
- Feminism(s) and Degrowth Alliance (FaDA) – link
Tutti le fotografie presenti in questo articolo sono prese da eventi co-organizzati da più movimenti ai quali ho partecipato svoltesi negli ultimi due anni:
- immagine di testa: Striscione all’ingresso del Venice Climate Camp – Settembre 2022
- img. 1 : un workshop del Venice Climate Camp 2022 – Settembre 2022
- img. 2: la Venice Climate March 2022 – Settembre 2022
- img. 3: Manifestazione nazionale Insorgiamo a supporto dei lavoratori ex-GKN a Firenze – Marzo 2022
- img. 4: Flash mob #DecolonizeConservation in piazza Duomo a Milano in occasione della pre-Cop26 organizzato da Extinction Rebellion e Survival International – Ottobre 2021
- img 5.: Lancio della settimana Ecotransfemminista con FFF e NonUnadiMeno a Brescia – Marzo 2023