La crescita inarrestabile della decrescita

da | 4 Gen 2024

Pubblichiamo l’ottimo resoconto (forse il più completo tra quelli che siamo riusciti a trovare) della conferenza di Zagabria scritto da Jessi Jezewska Stevens*, pubblicato sull’importante rivista Foreign Policy il 17/12/23 e tradotto da Giuseppe Raccagni del Gruppo Internazionale

 

La crescita inarrestabile dell’economia della decrescita

La spinta dell’Europa ad abbandonare il capitalismo è motivata dall’ottimismo sulla politica e dal pessimismo su tutto il resto.

La nona Conferenza Internazionale sulla Decrescita, tenutasi nell’agosto di quest’anno a Zagabria, in Croazia, si apre con una provocazione. La relatrice principale Diana Ürge-Vorsatz, neoeletta vicepresidente dell’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC), ha due richieste da fare al pubblico.

La prima è capire come coordinarsi con i governi di tutti i tipi, dal momento che la crisi climatica richiede un’unità globale.

La seconda? “Forse considerare una parola diversa.”

È quanto di più vicino alla blasfemia possa esistere in questa conferenza di nicchia, accademica e politicamente radicale.

Per una crescente minoranza di esponenti della sinistra europea, il termine “decrescita” si sta rivelando un’attrazione piuttosto che un ostacolo. Il multiforme movimento per il clima che esiste sotto la sua bandiera sta guadagnando slancio tra accademici, giovani attivisti e, sempre più, politici in tutto il continente.

Proprio lo scorso maggio, il Parlamento europeo ha ospitato la sua seconda (e terminologicamente ripulita) conferenza “Oltre la crescita”, questa volta con un consenso senza precedenti da parte dei rappresentanti eletti; come ha detto al Financial Times l’organizzatore e membro del Parlamento europeo Philippe Lamberts (dei Verdi belgi), i “pezzi grossi” stanno ora “giocando a palla”.

Quelli a Zagabria inquadrano la spinta di Bruxelles come “straordinaria” e “importante”, con il parlamento “pieno fino all’orlo” di una nuova ondata di attivisti, organizzazioni non governative, accademici e rappresentanti eletti per un totale di circa 7.000 persone. Julia Steinberger, ricercatrice di lunga data degli impatti sociali ed economici del cambiamento climatico presso l’Università di Losanna, aggiunge: “Ed erano giovani“.

Questa energia si ripercuote sul circuito della decrescita vero e proprio, che molti veterani mi dicono aver da tempo superato le sue umili origini. Nel 2014, in occasione di un raduno auto-organizzato a Lipsia, in Germania, i partecipanti hanno preparato i propri pasti. La conferenza di quest’anno, invece, è co-sponsorizzata dalla città di Zagabria, vede la partecipazione del sindaco e i rappresentanti dell’IPCC, e viene rifornito con tartine vegane da un catering professionale.

Con le sue radici più profonde nella democrazia diretta e nell’anticapitalismo, il movimento per la decrescita è intenzionato a sfidare il principio centrale dell’economia del dopoguerra: che ulteriori aumenti del PIL – fortemente correlati con l’aumento delle emissioni di carbonio – si traducono in ulteriori progressi nel benessere sociale e individuale.

Le implicazioni della critica vanno ben oltre i soliti appelli ai paesi per raggiungere gli obiettivi di emissioni nette a zero. Per i sostenitori della decrescita, la crisi climatica è un problema sociale e affrontarla richiederà niente di meno che la riprogettazione dell’intero ordine socioeconomico globale, specialmente nel ricco nord del mondo.

Perché l’improvviso interesse per questo programma radicale? Perché l’Europa, e perché ora?

Forse la risposta dovrebbe essere ovvia: alla fine di agosto 2023, quando si è tenuto l’evento di Zagabria, si è chiusa l’estate globalmente più calda mai registrata. La caratteristica distintiva dell’ultimo afflusso di seguaci della decrescita, come le principali figure del movimento mi sottolineeranno più e più volte nei quattro giorni, è la giovane età  vale a dire, una maggiore vulnerabilità agli effetti futuri del cambiamento climatico.

Lo status quo ha lasciato questi giovani sostenitori disillusi e allarmati. E non c’è da stupirsi. Quando, durante il suo discorso di apertura, Ürge-Vorsatz disegna una mappa del riscaldamento che mostra la proporzione della Terra che diventerà inadatta alla vita umana entro il 2070 secondo le proiezioni business-as-usual, nessuno batte ciglio; sono dati che questo particolare pubblico ha già visto.

Il suggerimento di “trovare una parola migliore”, tuttavia, viene accolto con una risata offesa. Per i giovani europei, la decrescita non è solo uno slogan utopico, ma una necessità ambientale intenzionalmente provocatoria e una realtà esistente.

Parallelamente a questi appelli radicali ad abbandonare la crescita economica come obiettivo politico, molti economisti hanno osservato che il capitalismo nei paesi sviluppati sta già rallentando, apparentemente di sua spontanea volontà, e molto contro la volontà politica dominante. La tendenza è chiamata (in un modo che difficilmente soddisfa l’invito di Ürge-Vorsatz a trovare un termine più attraente) “stagnazione secolare” e si prevede che nelle economie altamente sviluppate, un futuro prossimo di crescita stagnante sia più o meno inevitabile.

Secondo economisti come Dietrich Vollrath, il cui libro Fully Grown descrive questo fenomeno, questo rallentamento della crescita anno su anno del PIL pro capite è rilevabile nei paesi industrializzati ricchi come il Giappone, la Germania, la Francia, il Regno Unito e gli Stati Uniti.

La decelerazione è accompagnata da un aumento delle disuguaglianze, che contribuisce ad aumentare la polarizzazione sia a sinistra che a destra. Le transizioni energetiche mal gestite e i disastri provocati dal clima sono destinati ad esacerbare la tendenza. Lo stesso vale per il calo dei tassi di fertilità, che porta a una distribuzione sbilanciata per età della forza lavoro, mettendo ulteriormente a dura prova i sistemi di welfare. Mentre si è tentati di attribuire il calo dei tassi di natalità principalmente all’aumento del costo che comporta avere figli nei paesi ricchi, nell’UE i generosi benefici ai genitori (l’Ungheria, ad esempio, ha recentemente rinunciato all’imposta sul reddito delle persone fisiche per le madri sotto i 30 anni, tra le altre misure a favore della famiglia) non sono riusciti a invertire la tendenza. A un certo punto, le società ricche in fase avanzata del capitalismo moderno non vogliono più crescere.

Di conseguenza, per la prima volta dalla metà del XX secolo, i giovani delle nazioni più ricche del mondo, come quelli riuniti qui a Zagabria, non possono aspettarsi di stare meglio dei loro genitori.

Lo scenario generatore di ansia  è sufficiente a far pensare che l’aumento dell’interesse per la decrescita non sia, in realtà, solo un altro sintomo di una mancanza di crescita economica in Europa, unita all’imminente degrado ambientale. Mette a fuoco un quadro storico più ampio, quello dei paesi ricchi di tutto il mondo che lottano per gestire il declino ecologico e il crescente malcontento interno quando il solito rimedio – una rapida crescita – può essere tanto economicamente impossibile quanto discutibile dal punto di vista ambientale.

Se tale decrescita è inevitabile, i decrescenti si chiedono – anche se per una serie di ragioni molto diverse – come può essere gestita al meglio?

Ed è possibile che l’Europa lo accolga con qualcosa di diverso dall’ansia e dalla disperazione?

Nella serata di apertura della Conferenza Internazionale sulla Decrescita, in occasione di un ricevimento tenutosi nell’atrio del Museo d’Arte Contemporanea di Zagabria, si sono svolti almeno due sondaggi sui 680 partecipanti registrati, raccogliendo dati demografici in nome della ricerca accademica in corso. L’approccio diretto fornisce una buona stima: un rapido giro tra la folla dimostra che i partecipanti sono prevalentemente bianchi, giovani e in forma.

Eppure, esiste una notevole diversità all’interno di quell’apparente uniformità. La Decrescita è una grande tenda, che attrae studenti laureati, attivisti, marxisti, femministe, decolonizzatori e, in anni più recenti, politici eletti, tutti disillusi dalle promesse di “crescita verde”  incluse nel Green Deal dell’UE, o nell’Inflation Reduction Act degli Stati Uniti, orientato alla crescita. Potrebbe essere descritto come un campo accademico, un crocevia intellettuale, un movimento politico o, meglio ancora, data la sua natura versatile, come un movimento culturale.

Il termine decroissance è emerso per la prima volta in Francia durante i dibattiti sulle risorse degli anni ‘70, quando il Club di Roma pubblicò il suo famoso rapporto del 1972, The Limits to Growth, che è ancora uno dei libri ambientali più controversi e venduti di tutti i tempi. Lo studio sosteneva che l’esplosione della popolazione globale e la crescita   nell’uso delle risorse avrebbe superato la capacità di carico della Terra entro una generazione, con conseguente precipitoso declino del benessere.

Fortemente influenzato dalla comprensione di uno scienziato naturale riguardo la conservazione dell’energia (in contrasto con la comprensione di un economista circa  variabili astratte e teoricamente illimitate, come la domanda), il rapporto ha reso popolare l’idea duratura che non esiste una crescita infinita su un pianeta finito. Kenneth Boulding, autore del saggio “The Economics of the Coming Spaceship Earth”, ha fatto eco al concetto in una testimonianza congressuale durante una discussione sulla situazione ecologica globale nel 1973: “Chiunque creda che la crescita esponenziale possa andare avanti per sempre in un mondo finito è un pazzo o un economista”.

Prevedere il futuro è un’attività rischiosa. Il rapporto del Club di Roma è stato – ed è ancora – ridicolizzato dagli analisti mainstream, che hanno sottolineato il fatto che la generazione successiva è diventata, al contrario, sempre più ricca e popolosa. Altri hanno giustamente messo in dubbio la tendenza del rapporto ad alimentare le paure razziste dell’Occidente sulla crescita della popolazione nel sud del mondo. Da un punto di vista puramente ecologico, tuttavia, la ricerca degli scienziati naturalisti continua a suggerire che lo studio del 1972 ha avuto più ragione che torto; gli ecologisti avvertono che abbiamo ormai superato quattro dei nove limiti planetari che definiscono un pianeta abitabile.

L’odierna versione della decrescita, tradotta dal francese, sconfessa l’attenzione Malthusiana di questi dibattiti iniziali sulla crescita della popolazione, spostando invece l’enfasi sul consumo pro capite. Questa volta, il colpevole è l’opulenza nel nord del mondo.

Abbracciando l’ethos dell’anti-consumismo, dell’anti-pubblicità e della decolonizzazione, l’idea di riorientare le economie ricche lontano dal perseguimento egemonico della crescita del PIL ha guadagnato terreno in Francia e nell’Europa meridionale dopo la crisi finanziaria del 2008-09 – che è stata vista come un’altra conseguenza della ricerca sconsiderata della crescita – e dopo le misure di austerità che ha trascinato nella sua scia.

Vincent Liegey, un pensatore, autore e attivista francese fin dai primi anni del movimento per la decrescita, , mi dice che in questo nostro  tempo la decrescita potrebbe essere meglio compresa come uno “strumento”, quello utilizzato “per mettere in discussione i paradigmi dominanti e affrontare i problemi del 21° secolo con [l’idea di] benessere”.

C’è un sapore accademico nell’accumulo di termini e definizioni nelle conversazioni che ho avuto nei quattro giorni successivi: “convivialità”, “abbondanza frugale” e “benessere” sono favoriti (un manuale di uno dei più importanti pensatori del movimento, Giorgos Kallis, porta il titolo Decrescita: vocabolario per una nuova era). Il marxismo è più che atmosfera. Ma lo sono anche gli appelli alla democrazia diretta e al municipalismo, così come l’impegno serio delle ONG e dei membri del Parlamento europeo.

Può essere difficile tenere traccia di dove si trovi l’accento ideologico. Nel loro libro The Future Is Degrowth, Matthias Schmelzer, Aaron Vansinktjan e Andrea Vetter suddividono utilmente il movimento in diverse “correnti”, fra le quali ci sono due scuole dominanti: la riforma economica verde-liberale, che si basa sugli strumenti classici (come meccanismi del mercato, tassazione e regolamentazione) per mantenere la crescita e le istituzioni in linea con i limiti del pianeta; e il “socialismo senza crescita”, che si concentra maggiormente sui cambiamenti fondamentali della distribuzione e della proprietà (e che si distingue dal produttivismo marxista praticato nella Russia sovietica o nella Cina maoista).

Anche gli scienziati naturalisti forniscono definizioni operative. Uno degli obiettivi più comuni (e politicamente neutri) ripetuti a Zagabria si rifà ad un articolo del 2020 di Nature Communications intitolato “Scientists’ Warning on Affluence”: attingendo alla definizione dell’economista Giorgos Kallis, gli autori dell’articolo sostengono che la decrescita mira ad un “equo ridimensionamento della produttività (cioè dei flussi di energia e delle risorse), con una concomitante protezione del benessere”.

“C’è sempre stata una parte attivista e una accademica nel movimento”, mi dice la già citata Steinberger, co-autrice di quell’articolo. Sebbene entrambe le anime abbiano storicamente mancato di attrattività presso il grande pubblico, il 2023 potrebbe essere l’anno in cui questo status marginale ha iniziato a cambiare. La decrescita ha fatto “passi da gigante” nel “modo in cui possiamo articolare queste idee e su come possiamo renderle popolari”, dice Steinberger, indicando come esempio la conferenza di maggio a Bruxelles.

Allo stesso modo, Ürge-Vorsatz accoglie con favore il nuovo slancio come uno “sviluppo davvero entusiasmante”, ulteriormente legato alla recente legislazione vicina alla decrescita, come un progetto di direttiva proposto nel Parlamento europeo che vieterebbe l’”obsolescenza programmata” e aumenterebbe la durata dei beni di consumo.

Ci sono ulteriori segnali di forza. Il sesto rapporto di valutazione dell’IPCC, pubblicato l’anno scorso, ha fatto la sua prima menzione della decrescita, citando la “visione chiave” della letteratura secondo cui “perseguire gli obiettivi climatici … richiede un pensiero olistico che includa il come misurare il benessere”, e la “seria considerazione della nozione di limiti ecologici” da parte del movimento.

Gli scritti del filosofo giapponese Kohei Saito, astro nascente internazionale (presente anche a Zagabria), a sorpresa sono diventati un successo in Giappone e in tutto il mondo, con il suo libro del 2020 Il capitale nell’Antropocene che ha venduto più di 500.000 copie; durante la settimana della conferenza è stato citato dal New York Times per la sua filosofia di “comunismo della decrescita”, mentre una traduzione tedesca era appena apparsa nella lista dei bestseller di Der Spiegel.

Ed è una sorta di “vittoria culturale”, dice Liegey, che anche riviste politiche come l’Economist e il Financial Times, per non parlare della presente pubblicazione, abbiano iniziato a interessarsi alla decrescita, anche solo per sfatarla  come un disastro economico in arrivo.

Spinti a spiegare l’impennata di interesse, tuttavia, è degno di nota il fatto che molti organizzatori e ricercatori non abbiano citato proposte concrete dall’agenda economica della decrescita, ma piuttosto le rovine del vecchio paradigma del dopoguerra.

Hanno citato temperature da record che sono letteralmente aumentate fuori scala. Hanno citato la pandemia, un esperimento di rapida trasformazione sociale che ha ampliato l’immaginazione pubblica per ciò che è possibile in un lasso di tempo ristretto. Hanno citato, soprattutto, l’energia della generazione più giovane di attivisti di Ende Gelände, Extinction Rebellion, Fridays for Future, e i molti giovani e studenti laureati che si stanno impegnando nella decrescita stessa.

Una di queste nuove arrivate, qui a Zagabria come volontaria, mi dice di aver scoperto la decrescita dopo essere rimasta delusa dalle narrazioni sulla crescita verde e dalla politica dei partiti nella nativa Francia. “Non sono sicura di quanto sia propaganda”, dice con una risata, indicando la cacofonia di workshop e presentazioni accademiche che si svolgono contemporaneamente nel centro conferenze (il cui scopo abituale, mi dicono, è quello di ospitare matrimoni; qui se ne possono celebrare almeno tre contemporaneamente). Ma ammette che trova “stimolante vedere così tante persone che lavorano a soluzioni” dopo che i canali più mainstream l’hanno lasciata pessimista.

Non è l’unica persona attratta dal movimento europeo per la decrescita da una combinazione di pessimismo sulle attuali condizioni del mondo e dalla promessa di soluzioni politiche per placare quell’ansia. Ma la decrescita solleva anche la questione di quanto reali debbano essere queste soluzioni, o se piuttosto l’attrattiva principale sia la gestione del pessimismo.

Alla richiesta di spiegare perché il movimento continua a godere di più sostegno in Europa rispetto ad altre parti del mondo industrializzato, i sostenitori della decrescita sottolineano la lunga tradizione di organizzazione di sinistra del continente e la maggiore apertura culturale per frenare gli eccessi del capitalismo.

“C’è più libertà in Europa di mettere in discussione l’economia mainstream ed il paradigma della crescita”, dice Steinberger, che ha conseguito il dottorato di ricerca in fisica presso il Massachusetts Institute of Technology. “Non è che sia comodo”, aggiunge, “ma almeno… nessuno viene licenziato per questo. Non genera lo stesso tipo di repulsione istintiva”.

Saito, che ha studiato sia negli Stati Uniti che in Europa prima di tornare nella sua nativa Tokyo, dove ora è professore di filosofia all’Università, fa eco all’affermazione: “Penso che in un certo senso i paesi dell’UE abbiano già regolamentato questo sistema di capitalismo, creando altro spazio per altre cose, per attività non commerciali. E questa è già mezza decrescita”.

Ma c’è, potenzialmente, un contesto culturale più ampio alla base dell’aumento di interesse, soprattutto tra i giovani. Gwendoline Delbos-Corfield, membro del Parlamento europeo che rappresenta la Francia (e il gruppo dei partiti Verdi/Alleanza libera europea), mi dice che i giovani con cui parla sono particolarmente pessimisti. “Le ragazze mi dicono che non dovremmo avere figli perché danneggia il pianeta”, dice.

Le critiche giovanili (anche iperboliche) allo status quo non sono certo una novità per la politica europea. Ma l’atteggiamento attuale sembra diverso dalle proteste studentesche che hanno attraversato il continente negli anni ’60: “Sento che c’è più disperazione”, aggiunge Delbos-Corfield.

C’è sempre stata una tendenza anti-materialista e anti-capitalista tra i rivoluzionari verdi in Occidente, ma la decrescita dovrebbe anche essere intesa come separata da temi come quello del ritorno alla terra o dallo spiritualismo hippie che hanno segnato l’ambientalismo degli anni ’70. I principali fattori che si manifestano a Zagabria sono l’ansia economica e ambientale, mentre il mondo scivola in veri e propri disordini ecologici e civili.

“Hanno un notevole accesso a informazioni deprimenti”, dice Liegey dei giovani che vede unirsi e rimodellare il movimento, “e non c’è modo di agire su questo”. Ürge-Vorsatz fa eco alla sua valutazione. “Se si guarda solo alla politica climatica in Europa”, dice, “allora penso che dovremmo essere molto positivi perché l’Europa ha fatto grandi cose”. Su questo fronte, c’è motivo di essere ottimisti. Ma per quanto riguarda il panorama politico più ampio, osserva che spesso sembra che l’Europa stia entrando “in un’era di crisi dopo crisi dopo crisi” che richiederà una visione politica aggiornata: “L’unico modo in cui possiamo effettivamente gestire la crisi è pensare a lungo termine”.

Le accuse di pessimismo, insieme alle richieste di un continuo sviluppo economico nel sud del mondo, sono probabilmente il punto in cui i critici ottengono la maggiore spinta contro la decrescita. Pensatori che si definiscono “tecno-ottimisti” come Andrew McAfee e Steven Pinker si sono più o meno consapevolmente opposti ad esso. Per quanto riguarda gli obiettivi climatici, questi pensatori chiedono una crescita maggiore, non una minore, e soprattutto il cosiddetto disaccoppiamento di tale crescita dall’aumento dell’uso delle risorse materiali. Il loro autodefinito ottimismo deriva dal fatto che questo disaccoppiamento è già in atto; ritengono che possa essere accelerato attraverso le nuove tecnologie e una politica giudiziosa.

Vale la pena notare che in questo spettro di opinioni molto teso e contestato – dal tecno-ottimismo alla crescita verde alla decrescita – tutti sono d’accordo su una cosa: al fine di evitare il peggiore dei futuri climatici possibili, la produzione di materiali e carbonio dall’economia deve essere drasticamente ridotta. L’atteggiamento con cui si adoperano per ottenere tale riduzione, tuttavia, non potrebbe essere più diverso.

Ci sono effettivamente prove che il disaccoppiamento relativo è in corso dalla metà del 20° secolo, ma finora solo parzialmente, e solo nei paesi ricchi, e solo dopo un’enorme intensificazione dell’uso delle risorse. Le prime prove di smaterializzazione dai picchi di metà secolo in paesi come gli Stati Uniti, inoltre, non si estendono ancora a potenze come l’India o la Cina.

Si discute anche se questa tendenza parziale spieghi correttamente la delocalizzazione da parte dei paesi ricchi della manifattura ad alta intensità di materiali, o il cosiddetto effetto rimbalzo, per cui una produzione più efficiente e “dematerializzata” di beni e servizi si traduce direttamente in un aumento dei consumi, annullando immediatamente i guadagni ecologici. I sostenitori della decrescita, da parte loro, sostengono che il disaccoppiamento assoluto è una vera e propria favola, tanto pericolosa quanto i sostenitori del disaccoppiamento accusano di essere la decrescita.

Sia che il disaccoppiamento equivalga o non equivalga a un pensiero magico, visti i dati attuali, bisognerebbe essere davvero molto ottimisti per credere che gli scenari di disaccoppiamento da soli manterranno l’attività economica in accordo con i limiti planetari e lontano dai punti di non ritorno. La mancanza di evidenza di una imminente pallottola d’argento ci riporta alla domanda multimiliardaria: se una decelerazione economica è inevitabile, le nostre opzioni sono davvero illusione contro disperazione?

Non è un mistero il motivo per cui temiamo i rallentamenti economici. Le finanze statali fatiscenti, le recessioni e le transizioni economiche sono enormemente dolorose e dirompenti, soprattutto per coloro che si trovano nelle fasce di reddito più basse. Dopare i numeri della crescita come mezzo per alleviare il dolore economico e il malcontento, tuttavia, sembra sempre più un retaggio di un’epoca in cui i politici potevano promettere che le maree in rapido aumento sollevano tutte le barche.

Nel mondo di oggi, in cui la disuguaglianza globale sta raggiungendo i livelli prebellici, forse ha senso porre almeno la stessa attenzione sulla redistribuzione della ricchezza accumulata nel XX secolo, proprio con l’obiettivo di isolare i più vulnerabili della società dagli shock economici e ambientali che sono sempre più intrecciati. Ciò ha ancora più senso se consideriamo che nel mondo ricco, i tassi di crescita del periodo di boom del secolo scorso potrebbero essere il risultato di eventi non lineari e irriproducibili, come l’ingresso delle donne nella forza lavoro, la globalizzazione, la finanziarizzazione del debito pubblico e l’uso della forza imperialista.

Forse, come prevedono i tecno-ottimisti, l’intelligenza artificiale porterà ad un altro aumento della produttività, ottenendo un picco di crescita in stile XX secolo. (Anche se questo comporta il costo potenziale dell’IA che si ribella ai suoi creatori umani, il che difficilmente favorirebbe la prosperità economica.) DI sicuero, il cambiamento di composizione delle economie sviluppate richiede un corrispondente spostamento nell’orientamento delle politiche stesse.

“Una differenza fondamentale tra le teorie delle scienze naturali e le teorie delle scienze sociali è che le teorie delle scienze naturali, se valide, valgono per tutti i tempi e i luoghi”, ha scritto l’ex segretario al Tesoro degli Stati Uniti Larry Summers in una conclusione per il Fondo monetario internazionale pubblicato nel 2020, “Al contrario, la rilevanza delle teorie economiche dipende dal contesto”. Ha continuato: “Sono sempre più convinto che le attuali teorie macroeconomiche… possono essere inadatte all’attuale realtà economica e possono quindi fornire prescrizioni politiche fuorvianti”. Lo stesso potrebbe valere per la rincorsa alla crescita del PIL.

In tal caso, si potrebbe immaginare che dovrebbe essere compito del movimento per la decrescita quello di persuadere il grande pubblico di questo punto. Inoltre, se l’idea di fare di più con meno ha un problema di branding – vale a dire, un problema politico – non è un problema che qualcuno nel movimento della decrescita sembra immediatamente in grado di risolvere. Quasi nessuno di quelli con cui parlo a Zagabria è incline a “prendere in considerazione una parola migliore”.

La questione del linguaggio e dell’appeal popolare aleggia sul convegno. Durante una pausa per fumare, una volontaria croata locale, madre di due figli con un background di marketing, esprime preoccupazione per il modo in cui gli studiosi qui riuniti intendono comunicare la decrescita ad un pubblico più vasto. Mi racconta che i suoi figli in età scolare sono tornati a casa di recente annunciando di non voler più fare acquisti nei negozi di seconda mano. “Sono percezioni molto diverse: decrescere quando si tratta di una necessità, piuttosto che di una scelta” dice.

Durante il pranzo, davanti a un piatto (vegano) di lenticchie alla bolognese, un’altra volontaria, una ventenne nativa di Zagabria e membro di un eco-collettivo locale tutto al femminile, condivide le impressioni delle sue visite alle sessioni accademiche, molte delle quali sono aperte al pubblico. Arriva direttamente da una presentazione su un’ipotetica “città ecofemminista” in cui, anche lei, si interrogava sul vocabolario e su un pubblico più ampio. “Le ragazze del mio eco-villaggio, quelle a cui [i relatori] dovrebbero parlare”, dice, “non credo che avrebbero l’istruzione per capire. Mi sono chiesta: ‘Chi è il tuo pubblico?”‘

Consultando l’abstract della città ecofemminista in questione, le proposte delle autrici sembrano in effetti meno tangibili o concrete: i riferimenti includono “configurazione di infrastrutture spaziali e temporanee” e “politica del tempo femminista”.

La domanda del volontario “Chi è il tuo pubblico?” è giusta, soprattutto perché alcune parti del movimento hanno davvero il potenziale per suscitare l’interesse popolare.

Dopotutto, l’obiettivo primario della decrescita, spiega Saito, è quello di ritagliarsi uno spazio “al di fuori del capitalismo”, la cui logica di mercato ha colonizzato troppo del nostro processo decisionale sociale ed economico, ma anche al di fuori del socialismo tradizionale o del produttivismo marxista, i cui risultati ecologici nella Cina maoista e nella Russia sovietica si sono rivelati altrettanto devastanti.

Nonostante mi sia chiesta se sia la parola “comunismo” o “decrescita” a rappresentare il maggiore ostacolo che impedisce al movimento di diventare mainstream, mi  pare tuttavia che per i decrescenti come Saito, “comunismo” significhi qualcosa di molto più vicino al municipalismo e a un’espansione dello stato sociale (finanziato, presumibilmente, attraverso un meccanismo che rifiuta sia l’imperialismo che la crescita economica) che alla pianificazione economica classica.

“Io la chiamo “commonification“, dice Saito a proposito del suo aggiornamento dei principi marxisti per un’epoca tormentata dal clima. “Rendilo comune; fanne una ricchezza comune. Una società basata su quel tipo di “commonification” dei nostri bisogni primari, che non dovrebbe essere lasciata alle logiche del mercato”. Ogni intellettuale con cui parlo è impegnato per la democrazia e rifiuta lo stato a partito unico. Saito vede facilmente spazio per i meccanismi di mercato: “Naturalmente dovresti essere in grado di acquistare una mela o un’arancia sul mercato. Ma è necessario che quella mela provenga dall’Africa?” C’è un impegno per un’espansione dei servizi sociali come l’assistenza sanitaria universale, l’istruzione, i trasporti pubblici e l’alloggio, con ulteriori discussioni sulla riduzione della settimana lavorativa e sulle garanzie di lavoro; le persone usano meno energia e meno risorse quando acquistano e lavorano meno.

Lo stesso Saito non si preoccupa se gli altri “usano un termine diverso” rispetto alla decrescita, “purché siano disposti a pensare al di fuori del capitalismo”. Ma osserva che l’uso di un linguaggio provocatorio spesso ha uno scopo importante: la decrescita è stata coniata proprio per essere invendibile, con i suoi fondatori che hanno anticipato il problema del greenwashing che si è invece abbattuto su termini come “sostenibilità”, “crescita verde” e “impronta di carbonio”.

L’uso persistente di termini radicali, sostiene ancora Saito, può aprire la strada al progresso. “Dieci anni fa”, dice, “in America non si poteva pronunciare la parola ‘socialismo’. Oggi il tabù è stato rimosso, con politici come Bernie Sanders e AOC [Alexandra Ocasio-Cortez]”.

D’altra parte, si potrebbe altrettanto facilmente sostenere che la normalizzazione dei vecchi tabù è semplicemente un segno di maggiore polarizzazione e malcontento nei confronti del capitalismo; i tabù vengono rimossi altrettanto rapidamente a destra.

In questo contesto politico teso, il movimento per la decrescita dovrebbe continuare nel suo ruolo abituale di attivisti e accademici di sinistra, o è giunto il momento di pensare più come politici, in altre parole, come persone che devono scendere a compromessi?

Su questo punto, il movimento sembra diviso.

È chiaro, tuttavia, quale corrente è in ascesa. In un panel conclusivo, l’attivista e studiosa Julia Steinberger, che esercita una notevole influenza sui social media, riassume la necessità di mantenere i contatti tra il pubblico e i centri del potere politico. “La scienza ci dice che dobbiamo decrescere”, dice, “ma questo non significa nulla per i politici a meno che non possiamo anche aiutarli a tradurlo al pubblico”.

Racconta di aver presentato i dati ai rappresentanti eletti, solo per sentirsi rispondere che avevano le mani legate, a meno che non venisse dato loro anche un modo per venderne le implicazioni: “E noi abbiamo detto: ‘Pensavamo che fosse il vostro lavoro e quello dei giornalisti’. E loro hanno risposto: ‘No, non possiamo farlo, e i giornalisti non lo stanno facendo, quindi immagino che sia  vostro compito’”.

Gli alleati naturali del movimento, per non parlare delle connessioni con l’economia più tradizionale, esistono. Se la decrescita gioca bene le sue carte, i suoi sostenitori potrebbero non dover fare il lavoro da soli.

(*) Jessi Jezewska Stevens è una scrittrice di narrativa e critica. È autrice di The Exhibition of Persephone Q e del romanzo di prossima uscita The Visitors. https://foreignpolicy.com/author/jessi-jezewska-stevens/