Il 5 Novembre, Chiara D’Errico, Presidente del Circolo di Roma del Movimento per la Decrescita Felice e Karl Krähmer, co-presidente nazionale del Movimento per la Decrescita Felice sono intervenuti alla Commissione del Senato sugli sprechi alimentari.
- Argomento: Audizioni sui ddl 972, ddl 1145 e ddl 1167 (Riduzione dello spreco alimentare)
- La visione integrale del loro intervento è disponibile qui
Di seguito invece un trascritto dell’intervento.
L’intervento di Chiara D’Errico
È lodevole l’impegno della Commissione nel ridurre lo spreco alimentare. Come si legge nelle relazioni che accompagnano i disegni di legge, il Green Deal europeo, che ne è alla base, mira a garantire una sostenibilità ambientale e una giustizia sociale del comparto alimentare.
Al fine di raggiungere questo obiettivo non si può prescindere da un ragionamento a monte degli sprechi che riveda la % di utilizzo delle terre coltivate come forniture per mangimi riservati all’alimentazione del bestiame, nella maggior parte in allevamenti industriali. Ridurre la produzione agricola destinata ai mangimi, aumentando di contro la produzione agricola destinata direttamente alla popolazione, aiuterebbe a garantire più cibo di qualità per tutti. Del resto, una rimodulazione al ribasso degli allevamenti industriali garantirebbe anche una riduzione notevole dell’inquinamento e delle emissioni andando a lavorare direttamente sulla ratio alla base dei lavori in oggetto.
Spostandoci sui Disegni di Legge in esame, vorrei sottolineare come la prevenzione dellp spreco sia esso stesso riduzione dello spreco, trattandosi di una riduzione a monte ancora più virtuosa e meno impattante sull’ambiente. Uno dei pensieri cardini del Movimento per la Decrescita Felice evidenzia come non possa essere possibile nessun miglioramento se non si intervenga a monte del problema stesso cambiando il paradigma culturale di riferimento e riducendo il consumo non necessario.
Nell’ambito della riduzione degli sprechi alimentari è necessario pertanto intervenire sulla cultura del cibo e sull’idea di alimentazione dei paesi ricchi europei: alimentazione sana non si traduce in abbondanza ma in sufficienza. Scelte alimentari equilibrate nel rispetto della salute si devono tradurre in scelte di alimenti non ultra-processati, ma più naturali e con meno ingredienti.
Questa campagna di ri-educazione alimentare deve essere rivolta alla popolazione tutta utilizzando media, social, scuole, consultori, studi pediatrici.
Contestualmente a questa destrutturazione del concetto di alimentazione, che è in linea con quanto proposto dal Senatore De Carlo nel DDL n. 1145 che ribadisce la promozione di condotte virtuose e un cambiamento dei nostri comportamenti, suggerisco tre modalità di intervento: la prima nelle aziende agricole, la seconda nella trasformazione e la terza nella distribuzione.
Per quanto riguarda lo spreco nelle aziende agricole propongo un ampliamento dell’art.1 del DDL n.1167 sulla riduzione delle perdite post raccolto dando incentivi alle aziende che vendono i prodotti non esteticamente conformi o standard (ad esempio carote non dritte o prodotti fuori misura). Si dovrebbe salvare l’azienda agricola dal rischio di invenduto da una parte agendo sull’educazione ai consumatori nella misura in cui sano non vuol dire bello o standard; e dall’altra prevedendo rimborsi sull’invenduto soprattutto nel primo periodo di transizione.
Per quanto riguarda lo spreco nella fase di trasformazione suggerisco di incentivare la vendita di prodotti 100% naturali con un singolo ingrediente al posto di cibi ultra-processati. Come indicato nella relazione del DDL n. 972 bisognerebbe puntare sulla scelta degli alimenti, ma a monte bisognerebbe fare in modo che la proposta commerciale sia per la maggior parte di prodotti non processati. La tendenza crescente di vendere cibi pronti, ready to use, è in contrasto con questo principio e porta nella fase di trasformazione a perdite multiple. Basti pensare ad una lattina di fagioli pronti. Se la lavorazione prevede solo l’uso di fagioli si avranno scarti di produzione limitati al singolo ingrediente. Ma se andassi ad aggiungere alla lattina di fagioli anche del pomodoro, della cipolla, delle carote, del sedano, avrò uno scarto per ognuno degli ingredienti utilizzati.
Concludo estendendo il concetto del comprare meno ma meglio anche alla distribuzione. Oggi siamo abituati a vivere nell’abbondanza, il cibo è associato al diritto di scelta e di approvvigionamento in ogni momento. La conseguenza sono gli scaffali sempre pieni nei supermercati e la sovraproduzione anche per i piccoli produttori i quali, al fine di garantire la scelta di cui tutti sentiamo di aver diritto, si trovano costretti a sovra produrre – anche alimenti con breve scadenza, pensiamo ad un banco della panetteria al mercato – con il conseguente aumento di scarto e spreco al termine della giornata. La stessa cosa succede nelle dispense domestiche: viviamo nell’era dell’abbondanza, pensiamo alla nostra dispensa e per esempio concentriamoci sulla quantità di alimenti che abbiamo a disposizione per la colazione: quanti pacchi di biscotti? Quanti pacchi di cereali? Quante marmellate? E così via. Aumentando il numero di alimenti che abbiamo nella dispensa aumenta il numero potenziale di scarti e rifiuti (biscotti che si seccano nel pacchetto aperto o che scadono). Pertanto propongo di estendere il logo volontario previsto dall’art.2 del DDL n. 972 per i ristoranti che fanno asporto, anche a tutti quegli esercenti che abbracciano un concetto di sufficienza alimentare non sovraccaricando gli scaffali di merce o di scelte multiple di prodotti ma che puntano sulla sobrietà e qualità alimentare. Questo logo, accompagnato da opportuna informazione e divulgazione, sarebbe un vanto per chi lo esponga facendo diventare quello che potrebbe sembrare un assortimento poco profondo un punto di forza concettuale.
L’intervento di Karl Krahmer
Vi ringrazio per l’invito e per occuparvi dello spreco alimentare che è un problema serio, come evidenziato in tutte le relazioni di accompagnamento dei ddl. Allo stesso tempo però mi sembra che ci siano delle mancanze evidente nelle analisi e nelle soluzioni proposte. Mi concentrerò su tre aspetti:
1) Non si parla del tema del tema della produzione della carne e di altri prodotti animali
Attenzione, non farò qui un discorso radicale di veganesimo, io non sono vegano e penso anche che ci siano alcuni territori, come Alpi e Appennini in cui un certo allevamento sostenibile e ben gestito sia un uso sensato del territorio. Il problema è la quantità di prodotti animali consumati dalla nostra società che porta a impatti ambientali e sprechi enormi in termini di uso di suolo e calorie vegetali che potrebbero nutrirci direttamente. Circa metà delle emissioni gas serra del sistema del cibo (che sono un quarto del totale) derivano dalla produzione di carne a livello globale. Il fattore di trasformazione da calorie vegetali a calorie animali è bassissimo: per 1 caloria di pollo bisogna investire 7-8 calorie di mangime, per 1 caloria di manzo addirittura 50 calorie di mangimi (https://ourworldindata.org/grapher/energy-efficiency-of-meat-and-dairy-production). Di conseguenza si usa tantissimo suolo per produrre carne e altri prodotti animali.
Un’ipotetica dieta totalmente vegetale a livello globale permetterebbe di ridurre l’uso di suolo per l’agricultura del 75% (https://ourworldindata.org/land-use-diets).Come detto, per molte ragioni non è realistica una dieta globalmente del tutto vegetale – ma non affrontare qui il tema della produzione di carne e altri prodotti animali, che è il primo spreco del sistema alimentare è un controsenso.
Il punto è che mangimo troppi prodotti animali: la commissione EAT-Lancet (non certo dei vegani radicali) consiglia di assumerne per una dieta sana 334g al giorno (incluso latticini) pro capite, il consumo in Italia è di 957g – quasi 1kg, quasi il triplo del consigliato.
La prima misura da prendere sarebbe quindi quella di incentivare le diete vegetali.
2) Altro tema importante da toccare sarebbe quello degli imballaggi e dell’usa e getta.
C’è un uso spesso esagerato di imballaggi del cibo con un enorme produzione di rifiuti. Poi c’è il tema dell’usa e getta associato all’alimentazione. Infinite confezioni, piatti, bicchieri, stoviglie, bottigliette che vengono prodotte con grande dispendio di energia e risorse e dopo un solo uso finiscono in discarica se non in ambiente (https://www.legambiente.it/rapporti-e-osservatori/indagine-beach-litter/) – (e solo in piccola percentuale vengono riciclati).
E non illudiamoci, il Mater-Bi ed altre bioplastiche, la carta, non hanno degli impatti minori sul ciclo di vita – il problema è proprio l’usa e getta in sé:
Non so poi se vi è già capitato di ricevere dei buoni vecchi piatti usa e getta di plastica con su scritto “lavabili” per aggirarne il divieto (https://ilfattoalimentare.it/stoviglie-usa-e-getta-plastica-aggirata-normativa.html). Questo aggiramento della norma andrebbe impedito subito.
Più in generale però per ridurre gli sprechi quindi si dovrebbe quindi incentivare il riuso e disincentivare l’uso e getta, rafforzando un trend già esistente (https://www.ecodallecitta.it/netto-calo-delle-stoviglie-monouso-in-plastica-e-bioplastica/):
- pensare a un graduale divieto di tutti i bicchieri, piatti, stoviglie usa e getta nella ristorazione, di qualunuque materiale siano
- studiare dei programmi per il vuoto a rendere di bottiglie ma anche di altri imballaggi di tutti i tipi (il che richiederebbe anche una standardizzazione delle confezioni per ridurre i trasporti)
- introdurre delle misure per incentivare confezioni standardizzate riutilizzabili per cibi e bevande da asporto che si possano riconsegnare da esercenti diversi
- obbligare gli esercizi di ristorazione – come avviene ad esempio in Francia – di servire gratuitamente l’acqua del rubinetto e altre misure per ridurre il consumo di acqua imbottigliata di cui in Italia c’è il consumo più alto in Europa
3) Infine, equiparare la soluzione delle eccedenze alimentari con fornirle ai poveri è un problema morale
Non è accettabile che si pensi che la soluzione sia semplicemente dare le eccedenze ai poveri, approfittando della loro poca possibilità di scelta, aspettandosi che chi è povero viva di eccedenze – piuttosto qui, evidentemente, c’è un problema generale di povertà.
Il problema degli sprechi è strutturale, dovuto a un orientamento sistemico alla crescita economico senza criterio e senza riguardo per i suoi impatti negativi.
Bisogna promuovere un approccio di sufficienza, troppo per nessuno – cioè ad esempio, troppa carne, troppi imballaggi ecc. per nessuno – e abbastanza per tutte e tutti. Questo abbastanza va inteso come diritto al cibo di qualità.
Da questo punto di vista pare un paradossale cortocircuito che nel DDL 1145 si intendono finanziare generiche sperimentazioni sulla riduzione dello spreco dal Fondo per il reddito alimentare – di per sé problematico perché punta tutto sul destinare le eccedenze ai poveri anziché garantire davvero un reddito un diritto universale al cibo di qualità – che però è una delle poche cose che ci sono ed è già assai magramente dotato (2 milioni €/anno a livello nazionale).
Riassumendo, il recupero e la redistribuzione di eccedenze a fini di solidarietà si basa su un elemento di disfunzione del sistema alimentare (la produzione di eccedenze) come soluzione a un altro elemento di disfunzione del sistema di welfare (l’assenza di risorse per accedere al cibo).
Un conto è se un’associazione raccoglie delle eccedenze per ridistribuirle. Un organo dello Stato come il Senato invece dovrebbe porsi, come sottolineava anche un report dell’ISPRA del 2018 (https://www.isprambiente.gov.it/it/pubblicazioni/rapporti/spreco-alimentare-un-approccio-sistemico-per-la-prevenzione-e-la-riduzione-strutturali-1), con una maggiore capacità di visione e pensare a delle trasformazioni strutturali del sistema alimentare che aiutino a ridurre la produzione di eccedenze alla fonte – e, allo stesso modo, delle politiche per ridurre le diseguaglianze sociali in quanto tali.
Il recupero delle eccedenze quindi è solo uno di diversi passi per ridurre gli sprechi e andrebbe piuttosto destinato a tutte le persone indipendentemente dal loro redditto, destigmatizzandolo.