All’interno del pensiero e delle pratiche che si collegano in vario modo alla Decrescita quella di andare a vivere in campagna e sostentarsi del tutto o in parte con un’agricoltura su piccola scala ed “eco-armonica” è una delle scelte di vita possibili a cui viene naturale pensare. È stata ed è tutt’ora la mia, da parecchi anni ormai: una scelta che dall’esterno può apparire radicale ma che, anno dopo anno, diventa la condizione normale per chi la vive; una scelta che passa inosservata; che, pur partendo, a volte, da motivazioni anche profonde e considerazioni che investono la realtà attuale a diversi livelli – pur avendo quindi qualcosa da dire, qualcosa che si distilla e si affina negli anni attraverso la pratica e la domanda sempre posta sul senso di ciò che si sta facendo – troppo spesso non riesce a farsi sentire, a proporre le proprie ragioni. Ciò è anche a causa dell’isolamento geografico e della marginalità culturale delle zone rurali, del molto tempo da dedicare ai vari lavori che tengono occupato un contadino e, certamente non ultimo, del contesto culturale sociale complessivo oggi poco attento o sensibile a quanto egli rappresenta.
Non necessariamente dev’essere così per tutti – lontani dai tanti conflitti e complicazioni della vita cittadina si sta anche bene – ma, per quanto mi riguarda, questo isolamento culturale della dimensione rurale l’ho sempre vissuto come un problema, perché quella che chiamo “L’alternativa neo-contadina” – che è anche il titolo del mio nuovo libro che intendo presentare con questo articolo – l’ho concepita fin dall’inizio come qualcosa che ha un significato non solo personale, individuale, bensì come una possibilità di alternativa che, pur muovendo dagli individui e la loro capacità di scelta, ha valenze sociali e potenzialità complessive di cambiamento sul piano più vasto dell’economia, della cultura, della Storia. Qualcosa che andrebbe comunicato, dunque, perché credo tutto dipenda dal numero delle persone che prendono, con i propri comportamenti concreti, una certa strada anziché un’altra (scegliendo o anche scegliendo di non scegliere). Tutto nella Storia, se ci pensiamo bene, dipende sempre da questo.
Uno degli argomenti principali che cerco di approfondire nel libro, però, è che di questo potere della nostra fondamentale capacità di scelta oggi sembra invece che in troppi ci siamo dimenticati: la Modernità si era aperta con la scoperta liberatoria, grazie ai “Lumi” del pensiero razionale, che siamo gli artefici del nostro destino (ed anche delle nostre illusioni), facendo con ciò piazza pulita delle molte superstizioni magico-spiritualistiche che per secoli avevano fornito la giustificazione a chi deteneva il potere di restare per sempre al proprio posto ed il giogo a cui tener legate le persone comuni. Il pensiero scientifico è stato la grande conquista con cui l’Occidente si è liberato da tali vincoli pre-moderni e le conseguenze della sua applicazione sul piano tecnologico sono state così spettacolari da essere perfino abbaglianti. Non si è visto infatti altrettanto bene che le diseguaglianze sociali non sono veramente diminuite in questo passaggio, né si è dato molto peso all’uso delle conquiste moderne per asservire i popoli del resto del mondo: il mito del Progresso e della Libertà son bastati a lungo a giustificare queste e molte altre cose. Eppure Progresso, Libertà, Storia ed altre nozioni fondanti la Modernità Occidentale sono concetti che prima non esistevano (o non avevano lo stesso significato), figli delle cosidette “scienze sociali” ovvero del tentativo di applicare metodi simili a quelli delle scienze fisiche alla dimensione umana: un’operazione la cui reale possibilità è probabilmente molto discutibile, anche perché – tra altre ragioni che cerco di discutere nel libro – l’oggettività del dato (e quindi dell’analisi) richiesta dal metodo scientifico può essere trovata, nel divenire storico delle società, solo ex-post, ovvero quando i fenomeni sono già avvenuti e si sono compiuti. Ovvero quando è ormai troppo tardi per fare dell’analisi qualcosa di utile ad intervenire sul reale. Eppure noi, forse perché ammaliati dai risultati tecnologici delle scoperte scientifiche, tendiamo ad attribuire alla Scienza (ed a ciò che “sa di scientifico”) un ruolo di fatto sostitutivo di quello che svolgeva un tempo la religione (ruolo che alla Scienza autentica non compete e che essa non si propone di avere) nel darci una guida certa e sicura con cui rapportarci alla realtà. Per ciò ci siamo convinti che (a prescindere dai risultati storicamente raggiunti su questa via) non sia possibile immaginare soluzioni ai problemi della società se non attraverso “progetti” sociali, “modelli” di società, di economia, di politica, e partiti, movimenti, correnti di pensiero che si pongono sul piano della competizione tra modelli teorici e si affrontano cercando di prevalere per applicarli al reale.
Siamo convinti che quanto attiene alle scelte personali, individuali, pratiche, direttamente agite, sia alla fin fine senza valore, irrilevante sul piano del cambiamento sociale, economico, culturale. Dando credito solo ad analisi che avrebbero senso soprattutto ex-post, si dimentica – o si rimuove – il fatto che la realtà presente è sempre in-fieri e che la complessità dei fattori/attori in gioco rende le partite aperte e dall’esito non prevedibile. Tale rimozione è fuorviante, indebolente e deresponsabilizzante, essendo gli esseri umani membri di una società sia i soggetti osservatori che gli agenti (o non-agenti) osservati all’interno di queste analisi. Chi prova ad aprire una strada (per sé e possibilmente per gli altri) sul piano delle scelte di vita individuali viene spesso attaccato, accusato di velleitarismo, di irrealistico utopismo, di malcelato disimpegno, di fuga dai problemi reali e perfino di essere un potenziale pericolo se molti facessero come lui (nel libro porto alcuni esempi concreti cercando di smontare tali accuse anche su un piano molto pratico). E simili accuse non vengono solo dai difensori del mainstream, bensì anche da chi ad esso si contrappone (o crede di farlo) soprattutto su un piano politico: in entrambi i casi c’è una visione del mondo che parte da nozioni tipiche della Modernità Occidentale e c’è un pensiero (pseudo)scientifico applicato all’umano all’interno delle cui categorie tutta la dimensione umana si pretende debba rientrare. Da ciò discende, in fin dei conti, l’idea per cui “non ci sono alternative“; per cui non possiamo sottrarci ai meccanismi macroeconomici che regolano il mondo/mercato: da ciò discende il curioso e contraddittorio esito attuale della civiltà nata dall’Illuminismo, ovvero la credenza neo-superstiziosa in poteri superiori al di fuori del nostro controllo (le “leggi” dell’economia e della finanza) ai quali non potremmo che sottometterci, anche nelle nostre vite individuali; poteri che prendono oggi il posto che spettava una volta agli déi, ma che in realtà, come questi ultimi, siamo stati noi stessi a creare.
Liberarci da questa superstizione contemporanea non significa solo recuperare la creatività di reinventarci oggi una forma di vita ed economia che sia ecosistemicamente sostenibile, necessariamente incline alla solidarietà, capace di coniugare la (auto)produzione del cibo con molte altre fonti sostenibili di occupazione e reddito (anche con livelli medio-alti di formazione e competenze professionali) e capace di costituire una efficace risposta “dal basso” alla raggiunta incapacità del sistema di assorbire sufficiente occupazione (ciò che chiamiamo “la crisi”) quanto può esserlo una versione aggiornata della vita contadina. Significa ancor di più riprenderci la nostra vita ed il nostro ruolo di attori del divenire storico ed uscire dal mondo immaginario creato dal linguaggio che trova la sua massima espressione nella Postmodernità Occidentale (ormai estesa a livello planetario): un mondo di astrazioni che attribuisce più realtà a parole e concetti che all’esperienza diretta e che ci porta ad identificarci con immagini di noi stessi anziché col nostro vissuto.
In questo libro, “L’alternativa neo-contadina“, parto da un elemento autobiografico, dalla mia personale esperienza, ma ne seguo il significato e le implicazioni che ci vedo dentro ed intorno in una sorta di percorso esistenziale e quasi filosofico che scava dentro ciò che mi sembra stia alla radice dei problemi centrali della nostra epoca – al cuore, in sostanza, della Modernità Occidentale che è la cultura che li ha creati e continua a riprodurli – cercando le possibilità che noi stessi abbiamo di trovarne una via d’uscita attraverso un confronto tra il pensiero razionale a cui si ispira la Scienza e la consapevolezza che ci viene invece dalle tradizioni filosofiche tradizionali orientali e soprattutto dal buddhismo zen, dall’esperienza della meditazione.
L’alternativa, la vita, neo-contadina la vedo un po’ come una forma di meditazione in senso ampio, che include tutta la giornata, il lavoro, il cibo, ed anche le relazioni, l’economia….. Il libro si svolge su un filo soprattutto teorico, perché il mio scopo è proporre le ragioni di questa alternativa, ma tutto viene da e punta ad un fatto molto pratico, fisico, vissuto: ci si basa sulla terra, si assume una posizione in cui si crede e la si mantiene nonostante spesso non sia per nulla facile, nonostante non si sappia davvero cosa si debba fare – e parecchie cose, dentro e fuori di noi, remano contro. Ma pian piano, restando su questo sentiero (che non c’è, che sta ad ognuno di noi aprirsi – magari anche collaborando insieme ad altri, possibilmente) ci si accorge che siamo parte di qualcosa più grande di noi in cui capiamo senza parole, al di là delle parole. Se c’è qualcosa così, se ne siamo parte, non è perché noi lo produciamo o lo raggiungiamo, lo conquistiamo o lo costruiamo: c’è già prima di noi, è dato, è nella vita in sé, senza attributi, così com’è. Se accettiamo che questa è la base – e che questo siamo, in ultima analisi – da ciò nasce una prospettiva, una visione diversa che ha tutta una serie di implicazioni e di conseguenze tali da esprimersi in forme economiche, sociali, relazionali, culturali e tecniche che darebbero luogo alla costruzione di qualcosa che ex-post/dall’esterno potremmo anche chiamare un “modello economico-sociale” diverso.
Ma l’alternativa neo-contadina è arrivarci vivendolo.
“L’alternativa neo-contadina” è un libro uscito a giugno 2017, autopubblicato attraverso le piattaforme di Self-publishing Streetlib (per la versione ebook) e YouCanPrint (per quella cartacea) e reperibile in tutti i principali canali di vendita sia librerie fisiche che online.
Un grazie di cuore a MDF per aver pubblicato questa presentazione ed a tutti/e coloro che vorranno condividerla.
Sergio Cabras