La Consulta: vietato privatizzare i beni comuni degli italiani

da | 24 Lug 2012

Per una volta occorre usarla, la parola vittoria. Piena, cristallina, senza ombre. Il voto popolare, la decisione presa da 27 milioni di italiani non può più essere ignorata con vere e proprie norme truffa. La Corte costituzionale ieri ha riportato la lancetta del tempo al 13 giugno dello scorso anno, quando nelle piazze italiane i movimenti esultavano di fronte a un risultato straordinario e senza precedenti. Avevamo appena votato quattro quesiti, ma per tutti quell’appuntamento aveva un nome, uno spettro da respingere: privatizzazione. Ovvero la cessione di quello che le stesse multinazionali chiamano “l’essenziale per la vita” alle corporation, che, cariche dei soldi della finanza tossica, erano pronte a superare le Alpi, conquistando Comune dopo Comune il paese.

Fu una vittoria subito tradita quella dei referendum. Gli sherpa invisibili, gente tipo Valter Lavitola, si misero in moto subito dopo l’annuncio del Alfonso Quaranta, presidente della Corte Costituzionale. Bloccare le multinazionali, fermare giganti del calibro di Acea, rispedire al mittente le offerte di gestori di acqua e rifiuti come Veolia, tutto questo era uno scenario inaccettabile per chi dopo poco si sarebbe nascosto dietro lo spread e la crisi finanziaria. Il primo quesito dei quattro referendum era in fondo chiaro: accettate voi l’obbligo di privatizzare buona parte della vostra vita quotidiana? Volete che i rifiuti, i trasporti locali, gli acquedotti, gli asili nido, le farmacie comunali e quei servizi che i comuni devono garantire a tutti divengano il business del secolo, con fatturati garantiti per legge? Questa era la questione, semplice e diretta. Una semplicità che alla fine ha convinto la maggioranza del paese a votare contro la legge Ronchi-Fitto, quel pacchetto uscito dalla mente di Giulio Tremonti due anni prima, pronto a cedere un pezzo del paese a chi offriva di più.

Il 13 agosto, quando il differenziale con i bond tedeschi iniziava a far ballare il governo di Berlusconi, arriva silenziosamente la controffensiva. Una truffa, tanto per usare anche qui le parole giuste. La legge 138, all’articolo quattro riproponeva parola per parola quella stessa norma appena abrogata. Solo l’acqua, per il momento, veniva salvata, più per un timore di una rivolta che per scelta. Per l’intero universo dei servizi pubblici locali, dai rifiuti al trasporto, la ricetta proposta in fondo era la stessa. Vendere, subito e senza tante storie. Il testo approvato la scorsa estate era imbarazzante: interi periodi erano stati semplicemente copiati e incollati dalla legge abrogata, cambiando appena la sequenza. Il governo in fondo sperava nell’ultima estate prima della crisi, nel mare e nel sole, e in quel silenzio di gran parte della politica – a cominciare dal Pd – che in fondo quei Giulio Napolitano, figlio del Capo dello Statoreferendum li avevano dovuti sopportare.

Ad avvallare tutto fu lo stesso presidente Napolitano, padre – ma è sicuramente solo un caso – di Giulio, l’avvocato consulente di Acea che poco prima aveva preparato un lungo e motivato parere per spiegare ai gestori dell’acqua come evitare le conseguenze del voto popolare. Non fece una piega il presidente, firmò, anche sapendo che il governo aveva i giorni contati. Le norme che volevano uccidere il referendum hanno avuto nei mesi successivi un successo insperato. Quando la città di Roma si riversò nelle piazze per festeggiare la caduta di Berlusconi non poteva immaginare che Mario Monti in fondo aveva una mission chiara: garantire tutte le scelte liberiste pensate da Tremonti e indicate, nero su bianco, dalla Commissione Europea e dalla Bce. Cambiarono il nome, parlando di liberalizzazioni, parola che suonava bene soprattutto per il centrosinistra, memore delle lenzuolate di Bersani. E nel primo pacchetto “Salva Italia” infilarono lo stesso articolo 4 varato il 13 agosto. Anzi, per essere sicuri che tutti i sindaci si allineassero, i ministri tecnici aggiunsero anche il carico da novanta del commissariamento: i ribelli avrebbero perso i propri poteri.

Ad ottobre il “Manifesto” aveva lanciato un appello, firmato da Ugo Mattei e Alberto Lucarelli, chiedendo a quelle Regioni che avevano appoggiato il referendum di sollevare un conflitto di attribuzione davanti ai giudici costituzionali. Ci avevano creduto i due giuristi, ci aveva creduto questo giornale e, dopo ventiquattro ore, la proposta era stata accolta da Nichi Vendola. Così è nata la decisione di ieri della Consulta, dimostrando che la sinistra, quando si batte per i beni comuni, è vincente. Ora la Regione Puglia potrà bloccare le norme per la cessione ai privati di parte dei servizi strategici, come i rifiuti e il trasporto pubblico locale. La spada di Damocle dell’obbligo per legge che tanto temeva il governatore Vendola non esiste più e la politica potrà ritornare a scegliere, a contare, senza subire le minacce del mercato che si nasconde, neanche troppo, dietro il tecnico Monti.

(Andrea Palladino, “La Corte costituzionale: stop alla vendita dei servizi”, da “Il Manifesto” del 21 luglio 2012).

Fonte: Libre