Una cosa che fin dall’inizio mi apparve certa fu che il centro della nostra attenzione non sarebbero stati i discorsi sui massimi sistemi delle politiche agricole nazionali o internazionali. Ero convinto, e man mano che il lavoro andava avanti me ne convincevo sempre di più, che il vero centro del problema stesse in basso, nei cosiddetti stili di vita alimentari di ciascuno di noi. Sospettavo anche, e i numeri mi diedero ragione, che la variabile più pesante non fosse quella delle modalità di produzione e meno che mai di distribuzione del cibo ma proprio quella delle scelte alimentari oggi dissennatamente orientate, nei vecchi e nuovi paesi industrializzati, verso i cibi animali. Il problema è dunque: convincere il signor Rossi a mangiare qualcosa anziché qualcos’altro. Un problema banale in un ambito puramente razionale, difficilissimo nel contesto del mondo reale, dell’uomo reale che, essendo un animale intensivamente sociale non è, e non può essere, un animale razionale. Rimando a dopo un’adeguata motivazione di questa (inquietante, vero?) affermazione ed entro nel cuore del problema. Dunque, come riorientare le scelte alimentari del signor Rossi industrializzato verso i cibi vegetali (e parallelamente, poiché il problema è del tutto identico, verso i cibi non industriali)? La prima ipotesi di lavoro fu quella di una transizione graduale attraverso la via del “mangiare meno carne”. Questa via dovetti tuttavia rendermi conto che è sbagliata. Il motivo è diffusamente spiegato nella terza parte di Un pianeta a tavola e ad esso sarà dedicata anche la parte finale di questo articolo. Posso intanto dire a mia difesa che presi in considerazione questa via solo come ipotesi di lavoro e solo come tappa intermedia di una ben più coerente transizione. Spesso tuttavia la vedo esposta come certezza e come obiettivo finale. A un recente convegno ad esempio ho udito un relatore enunciare questa tesi giustificandola con l’affermazione che “è dimostrato che la soluzione che funziona è quella equilibrata”. Bene, parliamo un po’ dunque di soluzioni equilibrate, e cominciamo dalla sua. Il suo concetto di equilibrio consiste nel diminuire la spropositata mole di cibi animali della dieta italiana convenzionale ma mantenerne comunque una certa quantità. E adesso esplicitiamo il concetto che questa impostazione sottintende: prendiamo un pezzetto di paradigma della decrescita, in questo caso un’alimentazione sostenibile e pertanto vegetale, poi, per non spaventare troppo la gente, prendiamo anche un pezzetto di prassi dominante della società della crescita, cioè un’alimentazione basata sui cibi animali, mescoliamo il tutto, pratichiamo un energico sheckeraggio, e otteniamo… non è necessario che sia io a dire ciò che otteniamo, lo sappiamo tutti molto bene. Ciò che vien fuori è un magnifico cocktail il cui nome è sviluppo sostenibile. Noi però, noi che abbiamo scritto questo libro e forse anche chi lo leggerà, siamo quelli della decrescita mi pare. Dunque lasciamo che il nostro “equilibrato” amico segua la sua via e riflettiamo un po’ alla nostra maniera sul concetto di equilibrio (che, qualunque cosa egli ne pensi, è cosa diversa dal compromesso).
“È dimostrato che la soluzione che funziona è quella equilibrata”. Fin qui è tutto esatto. Bisogna tuttavia definire ora un concetto non equivoco di equilibrio. Partiamo da uno stile di vita alimentare reale, poiché è quello realmente seguito dagli italiani fino a una sessantina di anni fa: la dieta mediterranea. Che dire della sua sostenibilità? Facciamo riferimento allo studio di Tettamanti sulla sostenibilità delle scelte alimentari che ha dettato i criteri guida della seconda parte del libro (nota non del tutto a margine: non si tratta di una qualsiasi tesi di laurea ma di uno studio refertato e pubblicato da una rivista scientifica internazionale). Volendo situare al suo interno la dieta mediterranea potremmo dire che essa è un po’ l’equivalente di ciò che in tale studio è la dieta onnivora bilanciata biologica. Ma dove si situa quest’ultima se non in quella terra di nessuno che è la fascia di marginale sostenibilità, quella che ho definito la zona delle “vite vissute sul filo del rasoio?” Di una tale dieta potevamo forse accontentarci quando la popolazione italiana (e mondiale), e l’impronta ecologica, e le emissioni di gas serra e molte altre cose ancora erano la metà di adesso, oggi dobbiamo situarci più in basso, nella fascia di sostenibilità piena, dunque orientarci in maniera ben più accentuata verso i cibi vegetali. La dieta mediterranea insomma non era il massimo dell’equilibrio che si potesse raggiungere e in questo senso va pertanto ripensata. Ma cosa dobbiamo intendere per equilibrio? È a questo punto che giova rifarsi al criterio delle capacità di futuro (più volte enunciato da Maurizio Pallante) che definisce l’atteggiamento del paradigma della decrescita nei confronti di tradizione e innovazione. È l’atteggiamento di una equidistante e razionalmente critica attenzione verso l’una e verso l’altra guidato appunto dalle capacità di futuro che di volta in volta esse mostrano di possedere. Applicando questo criterio al nostro discorso abbiamo da una parte la tradizione della dieta mediterranea, che rimane un ottimo riferimento da cui partire e, accanto a essa, l’innovazione costituita dai cibi vegetali alternativi alla componente animale di tale dieta. Ecco l’equilibrio, il coerente ed efficace equilibrio che funziona. In questo caso, oltre tutto, non si tratta nemmeno di innovazione in senso assoluto bensì di introduzione di cibi provenienti da altre tradizioni alimentari, una sorta di sincretismo gastronomico insomma. Un sincretismo del resto non inedito poiché l’attuale dieta mediterranea è il frutto di numerosi analoghi sincretismi verificatisi in epoche passate. Pensiamo agli agrumi, provenienti dall’Oriente o alle solanacee e al mais, provenienti dalle Americhe e introdotte oltre tutto in epoca relativamente recente. Volendo essere puri custodi della “tradizione” dovremmo eliminare anche questi cibi poiché non autoctoni. Ma, proseguendo su questa via, ci accorgeremmo presto che resterebbe ben poco.
Analogamente a quanto avvenuto in passato possiamo pensare oggi a cibi come tofu, tahin, seitan, agar agar eccetera. Molti cibi di origine animale della tradizione mediterranea inoltre hanno il loro equivalente vegetale. Ho mangiato ad esempio un ottimo stracchino fatto a partire da germogli di riso, è facilissimo autoprodurre in casa la ricotta e un formaggio simile al gorgonzola a partire dal latte di soia e un formaggio simile al feta a partire dal tofu. Dunque a che serve ancora la zootecnia se non a produrre consumo di suolo, emissioni di gas serra e molto altro ancora? Non è ora di cominciare a dire che è il caso di metterla in soffitta? Al primo meeting della Decrescita di Perugia ho udito un relatore dire che nel perseguire l’efficienza energetica degli edifici dobbiamo essere “di un rigore maniacale”. Nessuno gli diede dell’integralista, e infatti aveva ragione. Che dire dunque dell’ancor più impattante settore agroalimentare dove oltre tutto per raggiungere la sostenibilità non abbiamo alcun bisogno di essere “maniacali” ma ci basta essere sensatamente equilibrati?
Voltiamo pagina adesso. Perché questo discorso sembra essere pieno di buon senso, sembra indicare la migliore delle vie possibili. E in effetti lo fa. Nonostante ciò tuttavia esso a null’altro riesce che a lasciare il mondo così come sta, perché è affetto da una grossa malformazione: è un discorso razionale. E, lo abbiamo detto all’inizio, l’uomo non è un animale razionale bensì sociale. Le due cose si escludono a vicenda perché per essere sociale l’individuo deve fare sua la visione del mondo e le regole di comportamento accettate come verità assiomatiche dal gruppo, la cosiddetta identità di gruppo. Essa non ha il compito di descrivere la realtà bensì di definire rigidamente un insieme di simboli aventi funzione di segni di appartenenza, uniformandosi ai quali l’individuo dice al gruppo: “io sono uno di voi”. La psiche umana è dotata di un vasto insieme di funzioni il cui compito è quello di cancellare la percezione del mondo reale e sostituirla con l’immagine di esso prodotta dalla sua identità di gruppo. Cancellare e sostituire, cancellare e sostituire, praticamente il signor Rossi non fa altro dall’alba al tramonto. E senza averne alcuna consapevolezza, perché si tratta in gran parte di automatismi inconsci. Ora, accade che gli stili di vita alimentari siano parte fondamentale di un’identità di gruppo. Essi sono cioè dei forti segni di appartenenza. Di qualunque natura essi siano, cambiarli per il signor Rossi significa dire al suo gruppo di appartenenza: “io non sono più uno di voi”. Ma questo egli, in quanto animale sociale, è istintivamente incapace di farlo. Ecco dunque perché la strada del “mangiare meno carne” è impossibile da seguire: essa si propone, senza intaccare l’identità di gruppo legata allo stile di vita alimentare, di indurre ciascuno, a livello individuale e in negativo, a tenere un comportamento di allontanamento da tale identità. Impossibile: “il signor Rossi non è programmato per farlo”. La strada del “mangiare cibi vegetali” si propone invece di indurre, a livello collettivo e in positivo, una modificazione dell’identità di gruppo legata alle scelte alimentari. Difficilissimo, ma qui siamo se non altro nell’ambito del possibile.
I ragionamenti fatti nella prima metà di questo articolo (e quelli delle prime due parti del libro) definiscono correttamente i termini del problema tuttavia non ci dicono nulla su come concretamente imboccare la via individuata. Il punto è che qualunque analisi della questione alimentare che si limiti soltanto agli aspetti razionali del problema e che prescinda dai dominanti aspetti psicosociali (e pertanto inconsci) è solo una sterile esercitazione accademica. Insomma, cambiare gli stili di vita alimentari significa modificare l’immaginario alimentare collettivo. Ogni altra strada è destinata al fallimento.
Postilla
Pochi giorni dopo aver scritto questo articolo incontrai Luca Menti, lo psicoterapeuta che ha collaborato alla terza parte di Un pianeta a tavola. A un certo punto del nostro dialogo egli citò gli studi di Serge Moscovici sui gruppi di minoranza come agenti di cambiamenti sociali. Spalancai le orecchie: è il nostro caso. Sostanzialmente egli disse che un requisito fondamentale affinchè l’azione risulti efficace è che il gruppo in cui si vuol indurre il cambiamento non percepisca il gruppo alternativo come rigidamente conflittuale rispetto agli assiomi identitari accettati dal primo. Lo trovai sensato; credo anzi di poter aggiungere che nel caso in cui si instauri una conflittualità l’effetto sarebbe addirittura opposto a quello desiderato perché la presenza di un antagonista esterno aumenta la coesione del gruppo e dunque consolida e irrigidisce le sue posizioni. Nel nostro caso questo discorso si concretizzerebbe nel porre verso l’esterno una sollecitazione iniziale morbida del tipo “mangiare più vegetali” piuttosto che una del tipo “mangiare solo vegetali” che rischia appunto di essere percepita come conflittuale. Questo mi sembrò in un primo tempo in contrasto con la tesi che ho sostenuto sopra, e che mi pare anch’essa sensata. Mi si poneva dunque il problema di conciliare le due posizioni.
Credo che l’apparente contraddizione nasca dal fatto che il mio precedente discorso non tiene conto di una variabile: la forza della sollecitazione al cambiamento. È chiaro che quando essa proviene da una entità percepita dal gruppo come emanatrice delle direttive identitarie, quale può essere il “capo” (identificabile nelle società di massa con i mass media) o una qualsiasi altra componente a suo modo “pesante”, è una sollecitazione forte, e dunque verosimilmente di immediata efficacia, per brusca che sia la sterzata che essa impone. Quando la sollecitazione proviene da un gruppo di minoranza è una sollecitazione debole che deve insinuarsi secondo modalità che potremmo definire “virali”. Queste modalità di penetrazione è naturale a questo punto che siano graduali e che passino attraverso stadi intermedi di mutamento dell’identità di gruppo. Non dimentichiamo tuttavia che quando noi diciamo: “mangiare più di questo, (e di conseguenza) meno di quello” null’altro diciamo che mutare collettivamente il sistema di simboli associati al cibo in cui il gruppo riconosce se stesso e solo in conseguenza di ciò mutare una prassi. In questo senso “mangiare più vegetali” è cosa praticamente identica ma culturalmente, simbolicamente, identitariamente diversa dal “mangiare meno carne” che pretenderebbe di mutare una prassi prescindendo dal sistema simbolico a essa associato. Dunque il discorso fatto da Luca si pone su un piano ben diverso da quello fatto dall’ “equilibrato” relatore da cui siamo partiti: è un processo operativo dinamico di transizione, non l’enunciazione a priori di una barriera imposta dallo status quo sulla quale ristagnare.
Filippo Schillaci